“Fantasmi di New York” di Jim Lewis (BigSur)

Una città che sembra un luogo di perenne attesa, un insieme di strade pericolose dove si può essere uccisi per pochi dollari, dove la musica risuona tutta la notte.

Questo libro sembra quasi scritto dalla città liquida, fredda e ansiosa, animata e decadente e splendente e sporca, immersa nelle contraddizioni generate dalla sua stessa esistenza, dalle sue promesse ingannevoli. New York è da sempre una delle città simbolo del Sogno Americano, l’incarnazione fertile delle possibilità che spesso rivelano la brutalità della solitudine e della spietatezza. John, Mike, Stephanie, Bridget, Benny si toccano, si incontrano, alcuni di loro si amano, come Mike e Bridget, nell’asfissiante calore cittadino che genera morti, o nell’alternarsi vivido degli inverni altrettanto impietosi, eppure i loro legami impacciati, frutto di inesperienza ed entusiasmo, non riescono a sopravvivere alla vita adulta, al momento in cui le bollette e le scadenze segnano il passo e ci distolgono dal nostro impaziente camminare sollevati da terra alla ricerca di un senso. In un certo senso siamo e sono tutti fantasmi, prendono il posto di chi c’è stato prima di loro, nelle case minuscole e rattrappite, con gli affitti bloccati, prima dell’11 settembre, prima del crollo del blocco sovietico, durante la falcidia dell’AIDS che ha distrutto vite e speranze e ha creato vuoti, imbarazzi, brusche prese di coscienza di famiglie ignare. Oltre le storie narrate ci sono altre storie, i seguiti annodati dei sopravvissuti, in una città indifferente che prosegue placida e torpida il suo lento estinguersi, insieme al moto dell’Hudson e dell’East River. Nessuna città del mondo occidentale forse espone le sue ferite in modo così netto come New York, dove tutte le persone fanno lavori precari in attesa che cominci la vita vera. Sembra un luogo di perenne attesa, un insieme di strade pericolose dove si può essere uccisi per pochi dollari, dove la musica risuona tutta la notte e c’è sempre un posto dove bere e mangiare e trovare altre solitudini da consolare. Cosa resta di noi quando smettiamo di avere densità corporea, quando ci rendiamo conto di avere ossa friabili e pelle spenta. Forse New York continua a ricordarsi di come eravamo, con i suoi strati di città in costruzione e ricostruzione.

Lo scrittore traccia un confine e poi lo scompagina tra il tempo presente e il tempo passato, per farlo confluire nell’unica possibilità: andare avanti, gesticolare e toccare e sperare che le persone che abbiamo amato non soffrano troppo. Tanto il caldo ritorna e guardare l’acqua dà un senso di connessione profonda a chiunque sia lì, a cercare di superare la tentazione di buttarcisi dentro.

 

“La città è una scatola rivestita di vetro dalla testa ai piedi. Ovunque ti giri trovi il tuo riflesso, il riflesso degli altri, e persino i riflessi dei riflessi. Dall’altra parte di ogni vetro ci sono delle luci, e non c’è cosa trasparente che non brilli. Alcune sono finestre, altri sono schermi di televisori, altre ancora sono pubblicità, ma tutte contengono delle persone. Guarda le persone che ci sono dentro: alcune sono stanche e altre ridono.

Ho vagato per le strade in cerca del mio amore, ma non l’ho trovato”.

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Marilena Votta

Marilena Votta nasce a Napoli e trascorre la sua infanzia e adolescenza in un luogo fatto di sole accecante e ombre altrettanto tenaci. Ha pubblicato le raccolte di racconti Equilibri sospesi, La ragazza di miele e altre storie (Progetto Cultura, 2016) e Diastema (Ensemble, 2020), e la raccolta di poesie Estate (Progetto Cultura, 2019). Il suo racconto “Fratello maggiore fratello minore” è stato pubblicato nell’antologia “Roma-Tuscolana”. Alcuni suoi racconti sono disponibili su varie riviste on line e cartacee. Nell’ottobre 2021 pubblica il suo primo romanzo, Stati di desiderio, con D editore. Del suo rapporto con la scrittura asserisce, convinta, che è il suo posto nel mondo. Scrive recensioni di libri che ama per "Dentro la lampada", la rivista della scuola Genius.

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