È uscito da pochissimi giorni in libreria il romanzo d’esordio di Deborah Baranes. E ne sono lieto. S’intitola Breve storia di una fine e l’ha pubblicato la casa editrice Aliberti nella sua collana Love. Ne sono lieto perché da molti anni so che Deborah scrive benissimo. E anche quando racconta situazioni di tutti i giorni ha una forza visionaria che sa concentrare negli apparentemente piccoli eventi dell’amore e della vita quotidiana, rivestendoli di una luce quasi epica. Ciò che accade nel romanzo è facile a dirsi. C’è una voce narrante, che racconta quello che capita alla sua amica Elena, c’è il fidanzato di Elena, c’è un enigmatico antagonista amante, ci sono i ricordi del padre di lei e soprattutto i suoi tentativi riusciti di farsi abbattere dalla noia e da un’inarrestabile sete di una vita diversa, malgrado tutte le sue evidenti e innate qualità. Facile a dirsi ma il modo in cui Baranes lo narra stupirà il lettore, secondo me, con una scrittura che cerca di evitare i luoghi comuni oppure di giocarci fino a renderli coinvolgenti. Un romanzo così, io lo leggo volentieri e ancor più volentieri ne parlo con l’autrice.
Come nasce Breve storia di una fine? Qual è stata la prima idea che ti è venuta in mente quando hai cominciato a pensarla?
Quando ho iniziato a scriverlo, ero molto arrabbiata. Ero arrabbiata con l’amore, o meglio con la banalità del fatto che chi ami può un giorno decidere di abbandonarti. O forse ero arrabbiata con me stessa, con la vulnerabilità che non credevo di avere. Di quel periodo, ricordo solo l’agitazione che sentivo dentro e che si traduceva in un movimento perpetuo. Finché una mattina ho capito che agitarsi non è un’azione, mentre scrivere lo è. Quindi direi che nasce dalla rabbia, che poi alla fin fine è solo dolore, e dal bisogno quasi fisico di tirarla fuori.
La prima idea era quella di una giovane donna che parte alla ricerca della madre che l’ha abbandonata. Poi la madre è diventata il padre. Ma non funzionava. Non riuscivo a mostrare il dolore. Ho buttato tutto e ho ricominciato dalla protagonista bambina, dal suo amore per questo padre che l’avrebbe sempre abbandonata, ma alla fine del romanzo. Ho buttato tutto un’altra volta, ho pensato di rinunciare e poi l’ho vista, la bambina: era lei che dovevo spostare alla fine. E quindi ho ricominciato dalla donna che è oggi. Dalle scelte assurde che fa. Che ci sembrano assurde perché di lei non sappiamo niente, perché la bambina che è stata se la porta dentro nascosta, e la scopriremo solo alla fine.
Aggiungo che nessuna di queste scelte le avrei fatte senza qualcuno, nello specifico tu, Paolo, che mi aiutava a capire cosa andava e cosa non nelle innumerevoli versioni iniziali che ti ho mandato di volta in volta. Se c’è una cosa che ho capito, è che scrivere è sì un’attività solitaria. Ma rischia di essere una spirale fine a se stessa, senza un lettore.
Da quanto tempo pensavi di scrivere questo romanzo e quanto ci hai messo a portarlo a termine?
Da sempre, forse? Mi è sempre piaciuto scrivere, e ancor di più immaginarmi in un faro, sola, circondata di libri, carta, penna e sigaretta che si consuma nel portacenere. Ciò che non immaginavo è la fatica, di scrivere. Le giornate in cui la pagina resta bianca e il cursore lampeggia. Le pagine da buttare e ricominciare. La voglia di fare qualunque altra cosa, accendere la tele, guardare Uomini e Donne, tutto pur di non dover passare tre ore a scrivere. E poi all’improvviso giorni in cui funziona. Entri nella storia e le dita scivolano sulla tastiera e ti dimentichi anche del tempo e ti scordi tuo figlio all’asilo. E dunque tanto, ci ho messo tantissimo, dalla prima versione a questa, rimaneggiata e tagliata, un po’ più di due anni.
La tua protagonista è una donna che ha sempre vinto facilmente, sa far innamorare, sembra forte e sicura di sé ma è pronta a cadere in trappola. Conosci qualcuna così?
Così tante! Conosco così tante donne belle, e intelligenti, autonome, amiche straordinarie che improvvisamente finiscono con uomini così banali, ed egoisti, e stupidi, che io non mi capacito e mi sbraccio e grido ma sembrano non sentirmi neanche. D’altronde: io per prima ci sono caduta, se di trappola si può parlare. Perché in realtà, mentre cadi, non senti che stai cadendo. Ma piuttosto volando. Sopra quel mondo noioso in cui si sono rinchiusi tutti, matrimoni e figli e liti e recriminazioni. Sempre più in alto, sempre più distante da tutto e tutti. È talmente forte, quello che provi, che nient’altro ha più importanza e sembri riuscire a dimenticarti di te. Finché non cadi. E ti ritrovi di nuovo con te, ma fatta a pezzettini.
Anche con tutta la sua sicurezza, però, è prigioniera di una storia inconcludente con un fidanzato che senza dubbio lei trova banale (e anche noi). È questo il suo vero problema?
Non saprei. Io credo che il suo vero problema sia se stessa, perché fa tutto da sola. Non succede niente alla mia protagonista, nessun incidente, malattia, nemmeno una misera unghia incarnita. È bella, ricca, arrogante, insopportabile. Eppure, così fragile che, di questo fidanzato, in realtà ha bisogno. Che poi: è davvero così banale, quest’uomo? O lo diventa visto dagli occhi di una, come lei, che non riesce a trovare pace?
C’è un uomo che gioca con gli enigmi e affascina la nostra protagonista, io lo trovo insopportabile, ma lei non può farne a meno, cosa ci trova?
Ma come insopportabile? È meraviglioso, lui. È tutto un gioco con lui, è come tornare bambini sull’altalena, sempre più su, sempre più giù, hai mai provato a tornare su un’altalena da adulto? Ti guardi intorno a verificare che nessuno ti guarda perché un po’ ti vergogni. E spingi con le gambe e mandi indietro quella ridicola tavoletta di legno che dovrebbe sostenerti. Ti aggrappi con le mani a quelle due cordicelle che non si capisce come faranno a reggerti ma già non te lo chiedi più, perché già sei tornato bambino, e stacchi i piedi da terra e improvvisamente senti che non proverai mai più niente di così bello. Questo, ci trova.
Sei un’appassionata di enigmistica?
Sono un’appassionata di qualsiasi sfida mentale. Col fisico, niente. Mai pensato di fare una maratona ma neanche un corso di ballo, a tutto ciò che implica uno sforzo fisico rinuncio in partenza. Ma se mi metti di fronte alla Sfinge, è più forte di me, devo sfidarla.
Forse la figura più enigmatica di tutta la vicenda non è l’uomo misterioso e nemmeno la donna ammaliata, ma la voce narrante, raccontaci qualcosa di lui.
Come mi piacerebbe sapere chi è lui! Tutti i miei personaggi, io riesco proprio a vederli. So esattamente Elena come si lega i capelli e lo sguardo di Max, quando sta appoggiato contro un muro con la gamba piegata. La voce narrante invece è una nebulosa. Non so neppure se è bello o brutto, calvo o con un ciuffo di capelli. Chissà, forse è semplicemente una voce, ma io non riesco a dargli una forma.
Il panorama di questa donna sembra dominato solo da figure maschili, il padre, l’amico voce narrante, il fidanzato, l’uomo degli enigmi. Le altre donne che spazio hanno nella sua esistenza?
È vero. Le donne non esistono nella sua vita. C’è solo questa madre, figura scialba e sempre in penombra, che probabilmente le ha trasmesso questo senso di sfiducia nell’universo femminile. O forse è la sua bellezza, e il suo anticonformismo, questo rifiutarsi di stare seduta a tavola con le altre, è così invidiata e, diciamolo, non fa davvero niente per risultare simpatica. Tutto ciò premesso, e dando a Elena tutte le colpe del mondo, le donne hanno un’incomprensibile capacità di farsi del male le une contro le altre. Quelle che hanno figli contro quelle che non li vogliono. Quelle che se ne occupano contro quelle che li lasciano all’asilo e ricominciano a lavorare. Quelle sposate contro chi decide di stare da sola. E quella si è rifatta e quell’altra c’ha l’amante, è davvero un miracolo, quando incontri una donna amica delle donne.
Pensi che ci siano degli elementi autobiografici che qualcuno possa intravedere, se ti si conoscesse bene?
Me lo chiedono tutti, se è autobiografico. Ma non essendo io Agassi, né Marina Ripa di Meana, la risposta è no. La storia è inventata, io non sono Elena, non sono bella e purtroppo non ho trent’anni, mio padre non mi ha mai chiesto di scegliere tra pacchetti rossi e blu e non mi ha mai fatto il male che il padre immaginario di Elena fa a lei. Ma ovviamente, la voce è la mia. E dunque in tutto ciò che scrivo c’è qualcosa che ho provato, e che doveva uscire.
In realtà questa storia è abbastanza complessa e scritta benissimo, forse qualcuno potrebbe però scambiarla per una “semplice” storia d’amore. Ti dispiacerebbe?
Nella mia testa c’era anche altro, lo ammetto: volevo chiedermi cosa c’è dietro a certe scelte d’amore. Nel libro a un certo punto la chiamo “una crosta che non riesci a grattare, che il sole non la secca e l’aria non la ossigena”. Una ferita così antica che neanche la cicatrice si vede più, ma che sta lì e ti porterai dietro in ogni scelta che farai.
Comunque lo è, una storia d’amore, e se qualcuno ci vorrà vedere “solo” questo, va bene così. Adesso il libro non è più mio, e ognuno può leggerci ciò che vuole.