Flavia Ganzenua è una delle docenti più preparate della Scuola Genius, ma stavolta non parlerò con lei di allievi più o meno promettenti, o romanzi più o meno riusciti. Infatti è da poco approdata in libreria con una raccolta di racconti, La colonia orfana (Affiori 2024), che presenteremo domenica 17 marzo nella nostra sede al Palazzo del Freddo. Si tratta di una serie di storie che ho trovato profonde e coinvolgenti, scritte con lo stile sicuro e accurato che fa di Ganzenua un’autrice di grande raffinatezza. Del resto, non sono poche le sue esperienze di scrittura: ha lavorato come sceneggiatrice e dialoghista televisiva per Rai e Mediaset, ha scritto diversi racconti pubblicati in antologie collettive (Mondadori), riviste e blog (Nazione Indiana), anche se appare naturalmente schiva e senza dubbio non è alla ricerca di una pubblicazione a tutti i costi (così facile al giorno d’oggi). È di diversi anni fa, infatti, il suo esordio nella narrativa con un’altra raccolta, La conta delle lentiggini (CaratteriMobili editore 2013). Ecco quindi l’occasione per farle fare capolino dalla sua tana narrativa per chiacchierare un poco dei suoi racconti.
Flavia, hai pubblicato questa nuova raccolta di racconti a undici anni dalla precedente, cosa è cambiato tra quei racconti e questi?
È cambiato tanto. La mia scrittura è cambiata tanto, ora racconta di più. Se una volta, infatti, avevo paura di essere troppo esplicita, perché temevo di rovinare qualcosa, oggi, invece, ho capito che c’è un tempo per dire e uno per accennare soltanto, che bisogna essere pronti a lasciare e lasciarsi andare.
La colonia di api orfana soffre la scomparsa della regina, l’abbandono… è questo il senso che tiene insieme queste storie?
Sì, abbandono e salvezza. Tutti i personaggi della raccolta sono costretti ad abbandonare, a lasciare, a disfarsi di qualcosa per salvarsi.
Secondo te, è necessario distruggere anche il ricordo di un’assenza che ci ha fatto soffrire, oppure anche così è impossibile liberarsene del tutto?
Penso di essere d’accordo con Bukowski e con quello che diceva, e cioè che “Ci sono persone indimenticabili. E nessuna cura”.
Chi è l’ape regina scomparsa? Nella tua storia e nella nostra società?
Quando ho scritto La colonia orfana avevo perso da poco mia madre. L’immagine della cenere, che rimane addosso alla protagonista e di cui la protagonista cerca in tutti i modi di sbarazzarsi, non è un’invenzione. È quello che è successo a me e di cui non sono riuscita a parlare fino a quando non ho lavorato al racconto. Scrivere di lei è stato l’unico modo per riportarla indietro, da me. Penso che questo valga anche in generale. Se non si riesce a fare i conti con l’indicibile, l’inconfessabile, con ciò che ci rende così umani, il rischio è di fare e rifare gli stessi errori.
Quanta autobiografia c’è in questi tuoi racconti?
Tanta, tutte le storie sono autobiografiche anche quando a parlare è un’anziana ancella condannata in eterno a consegnare le vergini al Minotauro. Penso che questo derivi dal fatto che soffro di una forma di nostalgia inconsolabile. La parola fine, per me, è una parola che non esiste.
Mi sembra che alcuni racconti abbiano al centro il senso di un’identità difficile da rivelare a se stessi e sempre in pericolo, è vero?
Verissimo. Credo dipenda dal fatto che spesso, ancora oggi, quando mi rado i capelli a zero o parlo al telefono con qualcuno che non conosco, la prima cosa che mi sento dire è Caro, invece di Cara. È qualcosa con cui faccio sempre i conti e che non può non venire fuori dai miei racconti.
Due raccolte di racconti, e so che hai in cantiere anche qualche romanzo. Ma ti consideri una narratrice breve più che lunga.
Penso di essere una narratrice dal respiro corto. Questo perché sono una maniaca del controllo. Dei miei racconti so a memoria incipit interi, tanto li scrivo e li riscrivo. E poi sono impaziente e pigra e preferisco correre i cento metri più che una maratona.
Hai scritto nel tempo anche sceneggiature, probabilmente si tratta di una scrittura più tecnica, fai un lavoro differente quando scrivi narrativa?
Sì, profondamente diverso. Quando scrivevo dialoghi per la televisione avevo un trattamento da seguire, delle indicazioni e delle regole ben precise. Quando lavoro alle mie storie, invece, non so fin dove mi porterà un’immagine, non so cosa voglio raccontare. Ho la sensazione di qualcosa. Intravedo qualcosa e vado fino in fondo. Non parto mai dalla scaletta, la storia prende forma via via che la scrivo.
Comunque, la tua scrittura è colma di immagini, le vedi chiaramente mentre scrivi?
Dipende. A volte sono molto nitide, come ne Il disertore. Mentre lo scrivevo, ho visto chiaramente tutti quegli alberi così piegati, ammassati in avanti che aprono il racconto. Altre volte, invece, ho più una sensazione e allora lavoro di cesello. E se alla fine quella sensazione sfuma, vuol dire che quell’immagine non è abbastanza potente e si perde.
Da anni fai lezioni di scrittura creativa, cosa finisce nella tua scrittura di questa esperienza?
Direi che ci finisce tutto ciò che conta. Insegnare, infatti, mi ha insegnato e mi insegna a scrivere meglio.