Qualcuno di voi ricorderà la celebre scena di Palombella Rossa in cui Nanni Moretti, in costume, accappatoio e cuffia, durante un’intervista si infuria con la sua interlocutrice che usa espressioni come “matrimonio a pezzi”, “kitsch”, “alle prime armi”, “cheap”, “fuori di testa”. Comincia a strillare come un indemoniato, disgustato da cliché e frasi fatte.
Chissà che questo non succeda anche agli editor, quando trovano nei testi che gli scrittori gli mandano qualcuna di queste parole scelte con un po’ troppa goffaggine. Ed è proprio per ragionare e lavorare sulla scelta dei termini giusti da usare in una pagina che alla Scuola Genius abbiamo ideato un nuovo workshop, “Il linguaggio dello scrittore”. A condurre le danze, per due giornate intense, sabato 2 e domenica 3 dicembre, dalle 10 alle 18, saranno Paolo Restuccia e Tea Ranno.
Per chi non li conoscesse ve li presento come li presento sempre nei nostri webinar:
Tea Ranno, scrittrice, vincitrice di diversi premi letterari, ha pubblicato per diverse case editrici, da e/o a Mondadori, a Piemme, il suo ultimo romanzo è Un tram per la vita (lo presentiamo a Palazzo del Freddo, a Via Principe Eugenio 65, a Roma, il 26 novembre alle 18).
Paolo Restuccia, socio fondatore della Scuola di Scrittura Genius, scrittore, docente, regista del Ruggito del Coniglio, il programma di punta di RAI Radio Due, il suo ultimo romanzo è Il sorriso di chi ha vinto (lo presentiamo a Palazzo del Freddo, a Via Principe Eugenio 65, a Roma, il 2 dicembre alle 19.30).
Se volete un assaggio di quello che sarà il week end “Il linguaggio dello scrittore” – a cui potete iscrivervi, online o dal vivo nella nostra sede a Palazzo del Freddo, cliccando qui – leggete l’intervista doppia che gli abbiamo fatto!
C’è un celebre film di Nanni Moretti, Palombella Rossa, in cui il protagonista Michele Apicella schiaffeggia una giornalista colpevole di aver usato una serie di cliché e termini alla moda gridandole: “Come parla!”. Le parole sono importanti?
TEA: Le parole sono l’unico strumento che possediamo per dare vita a una storia. Sono la materia prima: affinché il prodotto finale sia di ottima qualità, sono necessarie ottime materie prime. Scrivere (parlare) per stereotipi vanifica il linguaggio, indebolisce la comunicazione ma soprattutto ammazza la storia, anche buona, che si racconta (un po’ come usare uova, farina, zucchero di pessima qualità per un dolce che, inevitabilmente, sarà di pessima qualità).
PAOLO: Per uno scrittore le parole sono l’unica possibilità espressiva che possiede e anche l’unico strumento possibile per descrivere il mondo. Persino una singola parola, spesso, può essere decisiva per rafforzare un’immagine oppure indebolirla. Sapere se toglierla o lasciarla in un testo, oppure sostituirla con un sinonimo, è essenziale. Questo vale per chiunque scriva, dal giornalista al saggista, dal romanziere all’estensore di un verbale. Naturalmente, però, lo scrittore di narrativa usa le parole non solo per descrivere in modo accurato un avvenimento, ma anche per creare nella mente di chi legge un intero universo fatto di personaggi, suoni, colori, luci, ombre, sviluppi dell’intreccio, e via dicendo. La parola è il nostro modo di realizzare tutto questo.
Una cacofonia può rovinare un testo?
TEA: Dipende dall’intento dello scrittore: la cacofonia rovina un testo, sì, ma se l’autore vuole creare un disturbo nel lettore, un fastidio, può farlo attraverso l’uso sapiente di parole stridenti, irritanti.
PAOLO: La risposta a questa domanda è meno semplice di quello che possa sembrare. In effetti dovrebbe essere sempre da evitare la cacofonia, cioè letteralmente “il suono brutto”, nella nostra vita ideale lo scrittore di narrativa dovrebbe tendere sempre alla bellezza delle sue frasi, al rigore estremo della costruzione sonora (anche se si tratta di suono scritto, cioè destinato alla mente del lettore per lo più e non alle sue orecchie), eppure qualche volta c’è bisogno di “imbruttire” qualcosa o qualcuno, quindi anche qualche frase, qualche espressione, magari nel dialogo, per rendere verosimile un parlato oppure per descrivere un personaggio sgradevole.
Gli aggettivi sono sempre da demonizzare?
TEA: Gli aggettivi spesso servono. Ma bisogna usarli con parsimonia: affastellarli può provocare il crollo di una struttura narrativa. Lavorare a togliere, a snellire, aggiunge valore a una narrazione, a meno che non si scelga una lingua barocca (anche in questo caso, però, l’eccesso è pesato, contato, misurato).
PAOLO: No, affatto. L’aggettivo è una delle nostre possibilità più potenti, però deve essere giusto e adeguato al testo che stiamo scrivendo. In effetti in molta buona narrativa contemporanea c’è un uso rarissimo dell’aggettivo perché la forza maggiore di una descrizione si raggiunge più facilmente aggiungendo movimenti, dettagli, particolari che sono più efficaci e di maggior effetto. Però esiste dell’ottima letteratura che ne fa un uso gradevolissimo ed efficace. Tanto per fare un esempio molto noto, basta leggere la descrizione che Carlo Emilio Gadda fa del commissario Ingravallo nel romanzo Quer pasticciaccio brutto de via Merulana: “Ubiquo ai casi, onnipresente su gli affari tenebrosi. Di statura media, piuttosto rotondo della persona, o forse un po’ tozzo, di capelli neri e folti e cresputi che gli venivan fuori dalla fronte quasi a riparargli i due bernoccoli metafisici dal bel sole d’Italia, aveva un’aria un po’ assonnata, un’andatura greve e dinoccolata, un fare un po’ tonto come di persona che combatte con una laboriosa digestione: vestito come il magro onorario statale gli permetteva di vestirsi, e con una o due macchioline d’olio sul bavero, quasi impercettibili però, quasi un ricordo della collina molisana”.
Quello che è da evitare è l’aggettivazione banale, standard, i cliché usurati, scontati.
Come parla un personaggio noioso in un romanzo?
TEA: Un personaggio noioso usa una lingua piena di informazioni non richieste, di riferimenti a fatti, persone o luoghi di cui il lettore fa volentieri a meno; a volte vuole essere originale a tutti i costi, oppure mostrare il suo sapere inzeppando le frasi di tecnicismi, di riferimenti letterari, cinematografici, scientifici. Un personaggio noioso è un burattino che parla per bocca del burattinaio.
PAOLO: Come nella vita. Dice tutto, anche quello che potrebbe non dire, aggiunge particolari inutili, si dilunga su questioni secondarie, usa espressioni già sentite, risapute, magari sentendosi pure colto e intelligente a usarle. E soprattutto questo viene scritto dal cattivo autore senza una punta di ironia. In realtà, un lieve sentore ironico secondo me resta pure nei migliori testi seri. Direi che l’autore, lo scrittore, dovrebbe leggere un suo testo a qualcuno per capire se l’annoia. Questo avviene spesso nei laboratori, uno è convinto di aver scritto un racconto molto bello, poi lo legge in classe e si rende conto che nessuno lo segue e gli ascoltatori si annoiano. È una bella lezione, che in genere aiuta a guarire dalla noia!
Lo scrittore può permettersi di essere sgrammaticato?
TEA: L’autore può scrivere in maniera sgrammaticata se si cala nei panni di un bambino, uno straniero, un analfabeta. La lingua connota. Un narratore onnisciente può essere sgrammaticato nei dialoghi, a seconda dei personaggi che mette in scena, ma non nella conduzione della storia. Una narrazione in prima persona può essere del tutto sgrammaticata se l’io narrante è un bambino, uno straniero, un personaggio che ha studiato poco.
PAOLO: Lo scrittore può permettersi qualunque spericolatezza se serve al suo romanzo, secondo me. Se la sua voce narrante è incolta o per qualche motivo non ragiona bene, allora sarà anche sgrammaticata in maniera espressiva e – magari – potente. Però l’autore deve essere consapevole, molto consapevole, di quello che sta facendo. Se invece lo scrittore è sgrammaticato perché non conosce la grammatica, allora la punizione sarà durissima, il lettore lo considererà, a ragione, un ignorante.
Come fa uno scrittore a sapere di aver trovato il linguaggio giusto?
TEA: Quando, rileggendo ad alta voce, sente fluire la scrittura, non inciampa sui termini, avverte come credibili le battute di dialogo, ma, soprattutto, capisce che le parole sono adeguate alla storia e ai personaggi.
PAOLO: Cosa fa di una serie di note una canzone indimenticabile? E cosa rende un dipinto un’opera d’arte? Arriva un momento in cui l’autore si rende conto che quello che scrive “funziona”, se vogliamo utilizzare questo termine quasi da tecnico. Per saperlo, però, non gli basta un solo sguardo, il suo. Deve necessariamente passare anche al vaglio di qualche altro lettore. Se un occhio esterno sarà convinto perlomeno quanto lui, allora è sulla buona strada.
Quand’è che definiamo una pagina “povera”?
TEA: Quando è poco originale. Quando mancano le metafore (poche!) capaci di dare corpo a una scena, quando la lingua è sciatta, banale, incapace di farsi chiamata all’avventura.
PAOLO: Per me una pagina “povera” è una pagina sciatta, banale, non evocativa, semplicistica, non lavorata, insomma la “povertà” di cui si parla è la pigrizia dello scrittore. La pagina, anche e soprattutto quella apparentemente semplice, deve essere molto lavorata, parola per parola, artigianalmente.
Qual è il rapporto tra la scelta delle parole e l’editing?
TEA: L’editing è un lavoro sulle parole a racconto o romanzo finito, serve ad armonizzare il tutto. Possono esserci pagine molto buone in fase di lavorazione che poi, alla fine, sono inutili, ridondanti; lo stesso vale per le frasi, per le singole parole. L’editing è il lavoro di misura/pesatura finale, la scelta delle parole, invece, si fa a mano a mano che si scrive.
PAOLO: Lo sguardo esterno di cui parlavo prima deve essere preferibilmente uno sguardo professionale, per esempio l’occhio di un editor di casa editrice o di scuola di scrittura. Una volta che le parole sono accuratamente scelte, l’editing aiuta a comprendere se c’è qualcosa di troppo oppure qualcosa che manca. Riduce o annulla le imperfezioni, i refusi, le distrazioni, e si accorge anche dei tic verbali che non aiutano la pagina o la frenano.
Inserire delle parolacce in un romanzo o in un racconto è sempre una cattiva idea?
TEA: Le parolacce vanno bene – ma sempre con misura – se servono per caratterizzare il personaggio.
PAOLO: Ma no, ci sono tanti bei romanzi con le parolacce, ma anche nella poesia, le diceva anche Dante, le parolacce. E prima ancora le dicevano pure i poeti latini. Prendi questi versi di Catullo: Pedicabo ego vos et irrumabo, / Aureli pathice et cinaede Furi. Guarda, non li traduco perché siamo tra persone educate…
Lo scrittore o la scrittrice sanno far danzare le parole?
TEA: Ci provano. La danza delle parole è meravigliosa, ma ci vuole orecchio, passo, respiro, rigorosa conoscenza delle regole da violare in obbedienza alla musica della pagina.
PAOLO: Danzare, correre, rallentare, andare al giusto ritmo, suonare bene, gli scrittori dovrebbero saperlo fare con le parole… ma non è che tutti ci riescano, anzi, direi che è un obbiettivo, una meta, che speriamo di raggiungere almeno qualche volta.
Non mancate!
Lucia Pappalardo
Presidente Scuola di scrittura Genius