Essere sempre ospiti non particolarmente graditi, stranieri alla propria vita, o sul punto di non ritorno, bloccati dalla polizia di frontiera: di questo narrano i racconti di Manuel Muñoz, dove i protagonisti sono afflitti da una solitudine invincibile, una modalità di sopravvivenza che deve accontentarsi di speranze, ricordi o rimpianti, senza la possibilità di abbandonarsi alle lacrime o a una disperazione visibile. Non c’è tempo per farsi vedere sconvolti, ci sono bambini che aspettano la cena, o genitori sfatti dalle malattie e dal troppo lavoro, così quello che si può fare è tentare di stringere tra le dita una tazza di caffè e guardare da una minuscola finestra le luci della città lontana, che ammicca con il suo carico tentacolare di futuro migliore del presente.
Morti che ritornano e che reclamano il loro diritto a essere visti, conosciuti con il loro nome, visto che nella comunità anglofona non sono visibili; una ragazzina incinta e trascurata dal padre del bambino, un ragazzo pericoloso e violento, che rivendica il suo possesso su di lei, anche se non la vuole più; un ragazzo che preferisce morire lontano dal suo ultimo amante e chiama la sorella, nel loro meccanismo rodato di cartoline con una sola parola; una coppia gay che inaugura la casa e dove è evidente che solo uno è davvero il padrone, e l’altro, quello di origine latinoamericana, viene trattato come uno che sta solo approfittando della situazione, un grazioso ninnolo, perfettamente sostituibile. Il mondo anglofono della California centrale di Fresno, luogo dove sono ambientati racconti, appare contrapposto al mondo indurito dei latinos, molti dei quali, anche quando sono cittadini americani, non smettono di essere considerati inferiori. Spesso, infatti, i loro lavori umili li rendono invisibili al di fuori della comunità nella quale si identificano e i loro figli, anche quando trovano lavori migliori e sono scolarizzati, non riescono a togliersi da dosso e da dentro l’anima la polvere dei campi di raccolta delle arance, l’arsura e la rassegnazione.
La sensazione che si ha leggendo i racconti è di essere attraversati, insieme ai protagonisti, da una luce accecante, da attese pazienti sotto il sole, da piccole speranze, l’equivalente di un bicchiere d’acqua per placare la sete d’estate. Perché i protagonisti non sono soltanto degli sconfitti, sono avvolti in un bozzolo di solitudine sì, una solitudine che li identifica e li caratterizza, ma che li rende resistenti a un mondo ostile, con la consapevolezza dei sopravvissuti che non bisogna aspettarsi molto, perché restare vivi è già abbastanza, se non altro è un punto da cui partire per costruire qualcosa.
“Juan sentiva gli ospiti ridere, la voce squillante di Daryl al di sopra di tutti. Nessun altro suono al mondo. Faceva un caldo insopportabile, anche se il forno era spento ormai da parecchio.
Il tramonto filtrava attraverso la finestra. Juan guardò fuori, lo stretto cortile che teneva tutti vicini. Amicizie buone, solide. Una coppia che non conosceva si scambiava cenni di assenso mentre spiegava qualcosa a un’altra coppia. Juan non riconosceva nessuno ma in ogni caso avevano torto. Avevano torto, qualsiasi cosa stessero dicendo, qualsiasi cosa stessero sperando. Torto marcio. Juan si asciugò la fronte e si portò la mano alla gola. Se voleva un’altra birra, doveva tornare fuori, così si sedette sulla sedia vuota della cucina per ricomporsi, solo per qualche minuto, perché era difficile stare in mezzo a tutto quel torto senza, alla fine, dover dire qualcosa al riguardo”.