“La verità arriva all’improvviso” con Paolo Vanacore

Parla l'autore di una raccolta di racconti che narrano dieci figure femminili della periferia romana.

È tornato nelle librerie, in una nuova edizione ampliata, un libro di Paolo Vanacore. Non l’avevo mai letto finora così ne ho approfittato. Si tratta di una raccolta di racconti, La verità arriva all’improvviso. Dieci racconti di donne romane (Tempesta Editore 2023), con una bella prefazione di Sandro Bonvissuto. Nel libro si narrano figure femminili della periferia romana con mano sicura e lucida, rigorosa e appassionata, senza trucchi. Le parole delle protagoniste si ritrovano fluide sulla pagina, come se si trattasse di monologhi affidati a brave attrici, anche perché Vanacore, oltre a essere scrittore, è regista e autore teatrale. Ma nella narrativa non ci si può affidare alla bravura degli interpreti, è nella pagina, nelle parole scritte, che deve trovarsi la forza per raggiungere il lettore, colmando con la forza del racconto tutto lo spazio che in teatro è riempito dal corpo, dalla voce, le luci, le musiche, gli effetti. Così Vanacore ci mostra una scenografia fatta di palazzi, case, mura, cieli intravisti appena, rare vie di fuga. E riesce bene nel suo intento di farci avvicinare a queste dieci storie esemplari. Ne dialogo qui con lui.

 

Raccontare le donne, perché?

Mi viene naturale raccontare le donne perché la scomparsa prematura di mio padre, avevo dieci anni quando l’ho perso, mi ha permesso di approcciare il mondo attraverso gli occhi e le mani di mia madre, un filtro importante e complesso in un contesto difficile come la Magliana degli anni Settanta-Ottanta. Grazie a quest’osservatorio speciale crescendo mi sono reso conto che anche le vite degli altri, dei miei coetanei, prima adolescenti poi adulti, era fortemente caratterizzata dalla presenza e dal sentire femminile in contrasto con le cronache del mio quartiere che vedono sempre protagonisti gli uomini (ad esempio, il Delitto del Canaro – da cui è stato tratto il film Dogman di Matteo Garrone – oppure la Banda della Magliana, ecc.).

 

E che tipo di uomini accompagnano queste donne?

Quando non delinquono sono uomini spesso lontani, che vanno a lavorare fuori dalla borgata e nella maggior parte dei casi rientrano tardi, uomini che decidono, comandano, pur essendo assenti. Ho avuto modo di toccare con mano la grande maestria delle donne nel saper “contenere” prima i propri mariti poi i figli nel momento in cui si fanno uomini. Un mestiere vero e proprio che solo le donne sono in grado di svolgere, anche quando si trovano a dover soccombere.

 

Nei dialoghi usi il dialetto, come l’hai ricostruito nella scrittura?

È stato difficile perché il dialetto romanesco scritto ha delle regole ben precise che vanno rispettate. Ho pensato di scrivere i dialoghi dopo averli recitati ad alta voce in modo da non perdere la natura del parlato e l’intenzione, dopodiché mi sono affidato a uno specialista del settore che colgo l’occasione di ricordare perché scomparso pochi giorni fa, si tratta del grande scrittore e giornalista Willy Pocino, fondatore e direttore di “Lazio ieri e oggi”, del Gruppo dei Cultori di Roma, della casa editrice Edilazio (che ha dato alle stampe la prima edizione di questi racconti) nonché socio del Gruppo dei Romanisti e dell’Accademia Tiberina e mille altre qualifiche e onorificenze di prestigio.

 

Quale Roma viene fuori dai tuoi racconti?

Una città apparentemente lontana, pensiamo che nella Magliana di quegli anni erano stipate circa 180mila persone, molte delle mie donne raramente uscivano dal quartiere, alcune non avevano mai visto il centro storico, i monumenti. In una delle mie storie racconto la vicenda di una giovane sposa siciliana approdata in periferia che solo dopo essersi persa nel cuore della città dinanzi a tanta meraviglia trova la forza per ricostruire un’esistenza resa difficile dalla sottomissione al proprio marito. Ecco, la Roma che viene fuori dai miei racconti è una città in grado di produrre un’emozione talmente grande da cambiarti la vita.

 

Il linguaggio di questi racconti è molto realistico ma senza enfasi, è una scelta che mi fa pensare a certi ritratti fotografici del Novecento, è una scelta consapevole?

È un tratto caratteristico della mia scrittura, per alcuni può sembrare un limite, personalmente credo che la forza della narrativa sia costituita dalla potenza delle storie, dalla vita vera di carne e sangue, dal ritmo, dalla vicenda, dramma o commedia che sia. La mia idea di scrittura è secca, asciutta, scarna e magra. L’enfasi è data dagli eventi, da come comunichi quello che hai da dire.

 

Quando scrivi narrativa ti muovi in modo diverso da quando scrivi o prepari un testo per il teatro?

Sì, mi muovo in modo totalmente diverso, si tratta di due approcci distinti e separati. Scrivere per il teatro significa essere sul palcoscenico, dentro la scena e vederla pensando anche, ma non completamente, alla sua rappresentazione. Scrivere per il teatro è essere consapevoli che ci si trova all’inizio di un processo artistico ben più ampio che andrà a coinvolgere altre professionalità come la regia, la recitazione, la scenografia, le quali andranno ad arricchire il testo ciascuno con la propria parte creativa. La narrativa, oltre a essere un processo individuale, (a meno che non si faccia parte di un collettivo come Wu-Ming) non è così vincolante, ti permette di restare dentro la storia pur essendo ovunque, ti permette di raccontare emozioni e stati d’animo con la libertà di un viaggiatore del tempo. In un certo senso nella narrativa mi sento più libero ma solo.

 

Quanto c’è della tua vita in queste storie?

In queste storie ci sono i primi trent’anni della mia vita, nell’ultima in particolare racconto la storia vera di mia madre e del suo coraggio. Scrivere questi racconti per me è stata una sorta di catarsi, un atto dovuto, quasi necessario a un certo punto della mia vita, sia nel 2008 che a maggior ragione in questa nuova edizione, ampliata, che Tempesta Editore ha fortemente voluto e che ringrazio di cuore. In realtà mi sono reso conto che dovevo far pace con anni per me difficili culminati nella fuga, nel distacco violento. Grazie a questo libro mi sono reso conto di averlo amato tanto, il mio quartiere, e di averci vissuto paradossalmente anche bene, una sorta di poesia della precarietà che restituisce il senso delle cose.

 

Ci sono relazioni difficili tra madri, figlie e figli, padri spesso distanti o perfino nemici. Che famiglie volevi narrare?

Volevo narrare di quelle che io definisco “famiglie senza” quelle per intenderci cui manca sempre qualcosa, famiglie senza soldi, senza uno dei genitori, famiglie senza casa, senza lavoro, senza amore con un accento particolare verso la violenza domestica, spesso sessuale.

 

Uno dei figli di queste storie, Roberto, fin da piccolo scrive: “Mamma, portami via. Non voglio stare qui. Non mi piace”. Certe case sono prigioni?

Roberto soffre il quartiere, non vuole vivere lì, sente il bisogno di essere altrove, in un posto che ancora non conosce ma che non è quello in cui vive. Di conseguenza soffre anche la sua casa, soffre il palazzo, la pressione, la mancanza d’aria, quei balconi minuscoli dai quali si fa fatica anche a vedere il cielo. La casa come prigionia non è tale solo a causa delle dinamiche interne alla famiglia ma anche una questione strutturale, urbanistica.

 

Ti avevo conosciuto nel tuo primo romanzo come scrittore di commedia, profonda e leggera, qui invece siamo in pieno dramma, è una nuova via o solo una digressione?

In realtà la mia scrittura è molto variegata, oltre a L’ultimo salto del canguro ho scritto anche fiabe per bambini, diciamo che in questo periodo sento la necessità di ricorrere a un certo autobiografismo che, ahimè, è fortemente condizionato da alcuni eventi negativi che si sono verificati nei primi trent’anni della mia vita anche se il nuovo romanzo, che dovrebbe uscire il prossimo anno, è tutto incentrato sulla bellezza intesa come capacità consapevole di appagare l’animo attraverso l’arte.

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Paolo Restuccia

Scrittore e regista. Cura la regia della trasmissione Il Ruggito del Coniglio su Rai Radio2. Ha pubblicato i romanzi La strategia del tango (Gaffi), Io sono Kurt (Fazi), Il colore del tuo sangue (Arkadia) e Il sorriso di chi ha vinto (Arkadia). Ha insegnato nel corso di Scrittura Generale dell’università La Sapienza Università di Roma e insegna Scrittura e Radio all’Università Pontificia Salesiana. È stato co-fondatore e direttore della rivista Omero. Ha tradotto i manuali Story e Dialoghi di Robert McKee e Guida di Snoopy alla vita dello scrittore di C. Barnaby, M. Schulz.

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