Ernesto Berretti è uno scrittore che riserva sorprese, l’ho conosciuto leggendo il suo romanzo d’esordio del 2018, Non ne sapevo niente (Oltre edizioni) che raccontava le scoperte che aveva fatto mentre era impiegato da Basco blu in missione al confine tra Serbia e Romania durante la guerra nei Balcani degli anni ’90. Era un romanzo che raccontava della sua esperienza tra la gente dell’estrema periferia romena da poco affrancata dalla dittatura. Ne veniva fuori una visione originale di un mondo che è diventato vicinissimo e che ancora non conosciamo a sufficienza. Adesso l’ho ritrovato in libreria con una nuova opera, La giostra dei Pellicani (Watson 2022), che nasce anche questo – parrebbe – da un esperienza autobiografica, ma del tutto incidentale (un incontro casuale con uno sconosciuto che ha una storia da raccontare) e che sposta l’azione nel tempo fino al 1946 per risalire poi attraverso la storia d’Italia fin quasi ai nostri giorni. Un romanzo storico che è anche un romanzo d’inchiesta e un romanzo giallo noir. Non bastasse questo, Berretti con il collettivo degli Autori Solidali scrive racconti per sostenere chi ha bisogno e con l’associazione Book Faces promuove la lettura e iniziative culturali prevalentemente a Civitavecchia dove vive. E in più è stato seguito dai nostri tutor Luigi Annibaldi e Alice Felci in alcuni laboratori di scrittura. Ce n’è a iosa per rivolgergli qualche domanda, no?
È vero che il romanzo nasce dalla storia che hai ascoltato da un clochard sulla sponda di un fiume?
Verissimo. Una ventosa domenica d’autunno del 2012, mentre allenavo i canottieri sul Mignone (un fiume tra Tarquinia e Civitavecchia), è sbucato urlando dal canneto alle mie spalle e voleva conto e soddisfazione perché la barca di un bambino era scarrocciata sulla lenza della sua canna da pesca. Nel tentativo di contenere la rabbia del vecchio, il mio amico Gianni è riuscito a distrarlo riconoscendone l’accento siciliano. Ma quando gli abbiamo detto che avrebbe dovuto essere tollerante perché quei bambini potevano essere i suoi nipoti, beh, a quel punto, ha cambiato tono e ci ha gelati: «È una vita che sono tollerante!» e con una pacatezza inattesa ha cominciato a raccontare la sua storia. E l’ha fatto per tre domeniche…
La vicenda si svolge dagli anni Quaranta alla fine del Novecento: lo consideri più un romanzo storico o un romanzo d’inchiesta?
Ce n’è per tutti i gusti. C’è anche del noir, mi hanno detto. Attorno alla storia raccontatami dal clochard ho costruito questo romanzo. Lui ha percorso un periodo lungo e denso di episodi, più o meno noti, che ho potuto approfondire grazie ai miei personaggi, resi talvolta testimoni, altre complici, altre ancora vittime o artefici. E questo è l’aspetto storico. Ma mi piace non trascurare l’aspetto dell’inchiesta che guarda ai risvolti sociali per chi, per proteggere i propri affetti, resta intrappolato dai gangli del ricatto della malavita. O che richiama l’attenzione su presunti “errori giudiziari” che in realtà sono false ammissioni per coprire o salvare qualcuno. E come per tutte le inchieste, più che aver dato risposte, mi piace l’idea di aver suscitato domande.
Una, per esempio?
Cosa avrei fatto al posto di Duccio o di qualsiasi altro personaggio? Perché, va detto, il ricatto non si abbatte solo su chi lo subisce, ma coinvolge tutte le sue persone amate.
C’è un eroe in questa storia?
In realtà c’è un eroe per ogni lettore: c’è chi ha preferito Duccio; Gianna ha suscitato tenerezza; ‘U zzoppu ha fatto arrabbiare; Munzone è stato applaudito e don Michele odiato. Tra tutti, però, almeno apparentemente, è Duccio quello che subisce di più, costretto a resistere per salvare la propria famiglia.
Ai nostri lettori potrebbe interessare il lavoro che hai fatto per documentarti, molte ore in archivio, biblioteca, internet, cosa?
E anche in emeroteca (per scrivere titoli e articoli di giornali in coerenza al periodo narrato), nell’archivio del mio ufficio (per prendere spunto dai vecchi verbali di polizia giudiziaria), su vecchie monografie (per poter parlare delle vetture e dei treni del tempo) e rotocalchi (per l’oroscopo e per la trasmissione radiofonica di “quel” preciso giorno). Non ho lasciato nulla al caso! E mi sono appassionato ad approfondire alcune vicende storiche, come nel caso dell’uccisione di Masina Perricone (a lungo esclusa dalle liste delle vittime per lupara bianca per errore dell’addetto dell’ufficio anagrafe del tempo), del sequestro al carcere di Porto Azzurro (divenuto un fatto mediatico), o del “dolce ergastolo” (adottato dal direttore del carcere borbonico dell’isola di Santo Stefano, Eugenio Perucatti).
La Giostra dei Pellicani è ambientato in Calabria, io so che vivi a Civitavecchia: che rapporto hai con quella terra?
Io sono Catanese, ma varie città mi hanno adottato. E me ne vanto! Perciò ci tengo a dire che il romanzo è ambientato anche in Calabria. Con questa terra non ho nessun rapporto, ma mi ha sempre affascinato: prima dei Savoia era la terza regione più ricca d’Europa, dopo, è divenuta tra le più povere. È una terra che ha tutto eccessivamente, tanto le cose positive quanto quelle negative. Sarà per la sua forma, io l’ho sempre immaginata come una crispella d’acciughe: buonissima per alcuni, non gradita per altri. È per questa sua unicità che non ho esitato ad ambientarci il mio romanzo e, se ho fatto di tutto per esaltarne il bello della natura, della gente e di alcuni aspetti sociali, non ho finto che non ci fosse il male che la infanga e la costringe a… “partire con l’handicap”.
Hai fatto un lavoro molto interessante sul linguaggio, mescolando all’italiano della narrazione, frammenti di dialetto nei dialoghi: ti è venuto naturale?
È stato un lavoro lunghissimo e corale. Ho avuto la fortuna di poter contare su amici e amiche che mi hanno dato una mano per dare il meglio a chi si azzarderà a leggere me, sconosciuto tra decine di migliaia: dalle traduzioni in dialetto alle descrizioni paesaggistiche e a quelle carcerarie; dal dramma per la polio a quello per la depressione; dalle procedure giornalistiche a quelle giudiziarie. E una sfilza di ringraziamenti che per motivi di spazio non elenco se non la vostra Scuola, con Luigi e Alice che mi hanno concesso di raccogliere dalla loro professionalità e sensibilità come fossero piante di succosi e profumati mandarini.
Buoni mandarini… Con il tuo primo romanzo Non ne sapevo niente hai narrato della tua esperienza da Basco blu in missione di pace ai tempi della guerra nei Balcani. Ti piace trasformare in narrazione la realtà della vita?
Molto. Ho capito di amare le storie vere, fatte di sensi da tradurre in parole ed emozioni da provare a condividere.
Nel finale del romanzo sembra che l’azione non sia del tutto conclusa. Ci aspetta un seguito?
Ti dico solo che, da lettore, anch’io mi aspetterei un seguito…