Casa è quel posto dove ti devono far entrare, ma è anche quel posto dal quale se ti allontani ti vengono a cercare, così ha scritto Robert Frost e così si può riassumere l’esperienza dei fuggitivi, emigranti, o expat, che è solo un modo più gentile per dire che vai via da un posto che non ti dava abbastanza e poi a volte ci torni. Emigrante richiama l’idea di un bisogno, expat sembra una parola più corretta per dire che decidi di vivere in un altro paese, non lo fai perché sei senza mezzi, ma magari per fare nuove esperienze. Così racconta la mamma di Clara, una delle protagoniste, al suo microcosmo di estetista, parrucchiera, vicine di casa. Questa è la storia di Clara e Rossella, due cugine, nate a un mese di distanza, migliori amiche da bambine, e divise da adolescenti dalla loro potente diversità. Clara è quella meno bella, più interessata allo studio, Rossella è talmente bella e aggraziata che diventa una modella di abiti da sposa. La casa, il luogo in cui si svolge il romanzo, è soprattutto Caserta, la città dalla quale ho preso le distanze e mi manca nel modo doloroso che hanno di mancarti gli odori e le strade che ti sapevano chiamare per nome. Sarebbe riduttivo dire che questo esordio narrativo è un romanzo di formazione, però è anche questo, un romanzo in cui assistiamo alla crescita dolorosa, spesso fatta di consapevolezze, che portano a rinunciare al mantello magico delle favole, di due ragazze. Clara racconta della sua città, un angolo di mondo racchiuso tra il ponte di Ercole, ingresso simbolico verso il nucleo cittadino storico, corso Trieste, corso Giannone, e la Reggia, luogo per il quale la città è nota. Caserta è nitidamente viva sotto una coltre di nebbiosa ipocrisia, una modalità di sopravvivenza secolare, in cui le bambine sono, nell’immaginario familiare, destinate a diventare spose e madri, nonostante il lavoro e l’emancipazione. Rossella fa da contraltare al disagio esistenziale della cugina, e di lei, del suo dolore segreto, pure immaginato, scopriamo alla fine. Rossella alla fine è quella che resta, quella che dà corpo e voce alle aspirazioni degli altri su di lei, sposando il suo primo fidanzatino. Quando, in occasione del matrimonio della cugina, Clara torna a casa per l’evento, si rende conto di molti buchi nella storia perfetta, buchi che il suo affetto e il suo desiderio di ricucire i silenzi non basta a colmare. A Caserta Clara non racconta nulla della sua vita a Londra, del suo lavoro precario, sempre in bilico tra orari degli altri e fughe sudate in metropolitana (del resto come si fa a raccontare di distanze chilometriche a chi vive in un posto in cui l’intero territorio cittadino si può percorrere a piedi), e soprattutto tiene per sé i suoi incontri di sesso occasionale su Tinder, e la sua relazione con Tomas, un ragazzo argentino con cui non ha una relazione esclusiva.
Nei giorni di permanenza a Caserta, Clara racconta della sua antica amicizia con Luca, il fidanzato di Rossella, con il quale seguiva lezioni di ripetizioni di fisica (lei aveva 4 e lui 6 – ma quel voto striminzito rischiava di rovinargli la media), l’immersione in un mondo straniato dove le mamme ancora ricevono rappresentanti di biancheria per confrontare il corredo delle figlie, e dove ai maschi è inculcato di vincere, il tragitto percorso senza un dubbio, verso l’obiettivo di acquistare prestigio e soldi.
Non c’è spazio per il desiderio nel mondo casertano, le ragazze devono seguire la scia di madri e nonne, e poco importa che i matrimoni dei loro genitori siano fatti di doppie e triple vite, tanto nessuno dice nulla apertamente, e quello che non si dice non esiste. Clara si stacca da questa modalità di vita e invece racconta e cerca di riannodare fili, per darsi serenità, senza altre pretese che quella di essere sé stessa, un obiettivo che qualcuno giudica né più né meno che un tradimento. Perché tutto quello che sfugge all’asfittico bisogno di protezione e controllo mina alla base il perpetuarsi della società casertana, così com’è stata fatta per durare nel tempo.
Chi è vissuto a Caserta sa quanto sia difficile rivendicare la propria identità, e spesso, il modo migliore per riuscirci è quello di restare un expat, “solo una ragazza che cerca di farcela in una grande città”.
Chi sei quando nessuno ti vede?
Che cosa era stata davvero la vita delle ragazze perbene? Tenerci docili, crescere nella vergogna chiamandola purezza. Imprigionate come Belle nel palazzo della Bestia, ci avevano addestrate ad avere paura della rosa tumulata nelle segrete del castello, lontana dal nostro sguardo.
Ho sentito il piacere esplodermi dentro come una tempesta in una scatola, una scarica elettrica nel ventre e nella testa a cui è subentrato un torpore dolce. Si è espanso lentamente, come inchiostro su un panno, e nel seguirlo ho dimenticato il mio nome.
Dev’essere così che si muore, ho pensato. E poi ho percepito, nonostante tutto, di essere incredibilmente viva.