Primo e Lorenzo

Renzo e Lisa Lorenza: li aveva chiamati così, quasi con lo stesso nome, per gratitudine verso l’uomo che, durante l’anno di internamento ad Auschwitz, gli aveva salvato la vita

L’alba del nuovo giorno lo trovò sveglio, da quando era tornato a casa era sempre così.

Sua moglie e i bambini dormivano ancora

Primo Levi spostò la coperta pesante e si mise seduto sul letto: quando si svegliava troppo presto raggiungeva il salotto senza far rumore, per mettersi a leggere o a scrivere fino all’ora di colazione.

Quasi ogni notte faceva un sogno che non riusciva a ricordare ma che gli lasciava addosso una sensazione sgradevole, qualcosa che sapeva di paura e di stanchezza.

Quel maledetto campo…, sospirò, e gli sembrò di risentire le urla dei soldati tedeschi e il ringhio dei cani aizzati contro i prigionieri.

Lasciò il libro appena aperto sul divano e si diresse verso la camera dei bambini. Renzo dormiva col dito in bocca, un piedino nudo fuori dalla coperta, Lisa Lorenza, la primogenita, invece, stringeva nel sonno una vecchia bambola dalla quale non si separava mai.

Primo Levi guardò i suoi bambini, e un velo di lacrime gli offuscò la vista.

Renzo e Lisa Lorenza: li aveva chiamati così, quasi con lo stesso nome, per gratitudine verso Lorenzo Perrone, l’uomo che, durante l’anno di internamento ad Auschwitz, gli aveva salvato la vita.

Nell’estate del ’44, mentre lavorava alla costruzione di un muro, Levi aveva udito uno degli operai venuti da fuori esprimersi in piemontese con un suo collega: l’uomo era di Fossano, e da quel giorno i due erano diventati amici. A rischio della sua stessa vita Perrone divideva la sua razione di cibo con Levi che, come gli altri prigionieri, moriva letteralmente di fame.

L’operaio italiano gli passava anche qualche indumento da indossare sotto la divisa del campo, troppo leggera per affrontare l’inverno ad Auschwitz.

Perrone era riuscito anche a spedire una cartolina alla madre di Levi, che aveva così saputo che suo figlio, portato via dai nazisti, era ancora vivo.

Dopo la guerra erano tornati entrambi in Italia. Primo aveva trovato un lavoro come chimico e si era sposato.

Perrone, invece, segnato dalla dalle atrocità di cui era stato testimone incolpevole ad Auschwitz, aveva cominciato a bere, perdendo anche il lavoro. Primo aveva cercato di aiutarlo in tutti i modi tentando, inutilmente, di convincerlo a farsi curare. Perrone era morto di tisi nel 1952, l’anno in cui era nata la figlia di Primo, chiamata Lisa Lorenza per onorare la memoria dell’amico.

Gli anni passavano, la vita riprendeva: l’opinione pubblica voleva sapere cosa era successo nei lager nazisti, Primo scriveva e raccontava la sua andata e ritorno dall’inferno di Auschwitz.

Nel 1958 era nato il suo secondo figlio, un maschio.

Primo Levi si avvicinò al lettino di Renzo e, delicatamente, adagiò il lenzuolo sul piedino grassoccio che sporgeva.

“Tutti coloro che dimenticano il loro passato sono condannati a riviverlo”, pensò. Lui non poteva dimenticare: il male era un numero bluastro impresso sul braccio, il bene erano due bambini addormentati, entrambi con il nome di uomo giusto.

 

Bibliografia:

Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi;

Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi.

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Loredana Germani

È tra i fondatori della Scuola di scrittura creativa Genius. Dopo gli studi in Storia e Letteratura italiana, scrive diversi racconti autobiografici e articoli in cui descrive incontri con autori. Ha curato l’antologia di racconti A Roma San Giovanni e tiene la rubrica Vita da scrittore sulla rivista letteraria Dentro la lampada, nella quale narra opere e aneddoti di grandi personaggi letterari.

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