“Sia da addormentata che da sveglia” di Tomoka Shibasaki (Rizzoli)

Una narrazione che ha la bellezza tenue di un manga, la mutevolezza delle foglie in autunno, la poesia dolente del mondo nipponico

Asako, anche detta Asa-chan nel modo confidenziale tipicamente giapponese, è una impiegata di 22 anni che vive a Osaka e ha l’hobby della fotografia. Il suo tempo, il tempo della narrazione, è un tempo che galleggia sospeso, in una fase di eterna precarietà emozionale e lavorativa. Asako, come molti suoi coetanei, non ha il desiderio di trovare un impiego fisso, accontentandosi di lavori part time noiosi e appena sufficienti a pagare l’affitto e le bollette. Il suo modo di guardare il mondo, alla fine del ventesimo secolo, nel 1999, rispecchia la sua passione per lo scatto fotografico, con una macchina analogica: un momento da catturare, una luce porosa da tenere viva per sempre, una serie di colori che si riflettono nel cielo “azzurro come carta da parati” e nell’acciaio lucente dei grattacieli che circoscrivono la visione dell’ambiente che tiene al sicuro le sue aspirazioni e i suoi tiepidi desideri. Quando incontra Baku, Asako si innamora di lui in modo assoluto, al punto da perdersi nella piega delle sue fossette e nell’arco delle sue sopracciglia chiare. Si innamora con il trasporto passionale della prima volta, al punto da giustificare o trascurare i comportamenti violenti che lui manifesta, o le sue sparizioni improvvise. Così quando un giorno, durante un viaggio a Shangai, Baku le fa sapere da un amico che non tornerà in Giappone, ad Asako non resta che evitare di mostrare il suo cuore spezzato e la sua dignità frantumata. Accompagna un’amica a Tokyo che deve andarci per lavoro, e finisce per restare a viverci anche lei, stringendo quei legami, intensi e fragili al tempo stesso, che accadono alle persone che cambiano città. La capitale non modifica gli orizzonti emotivi di Asako, che continua a vivere nel suo tempo sospeso, fatto di immagini che le nutrono l’anima. Apri una porta e lo scorrere del tempo non ti cambia la grana della pelle, sei sempre tu, che dopo 10 anni aspetti che capiti qualcosa che ti cambi in modo profondo. Per il resto del tempo ci sono i lavori di giorno, le cene con gli amici, gli aperitivi sulle terrazze dei grattacieli, lo shopping che diventa un’attività reverenziale. L’incontro casuale con Ryohei, che somiglia molto a Baku, la immerge in una nuova storia d‘amore, una dolce e confortante abitudine di calore umano, ma quando all’improvviso Asako vede in un telefilm Baku che recita da protagonista, e si accorge che è diventato famoso, non sa resistere all’impulso di cercarlo e di mettere in discussione il suo fragile equilibrio. Non c’è rabbia nel rivederlo, solo curiosità e la pulsione di poter riavere il senso di incanto dei vent’anni, alla soglia dei trenta. Una pulsione innescata dagli amori irrisolti, devastante, che rischia di farle perdere tutto quel poco che ha, il suo mondo stipato in una borsa da viaggio, tanto quello che manca si può comprare nei market aperti h24.

Una narrazione che ha la bellezza tenue di un manga, la mutevolezza delle foglie in autunno, la poesia dolente del mondo nipponico, il loro accettare i cambiamenti con il silenzio ostinato dei sopravvissuti, le labbra strette in una piega.

Ryohei taceva, guardando gli alberi, la strada e il cielo. Dai rami cadevano gocce di pioggia, rimbalzando sulle pozzanghere. Tutto brillava di colori accesi: le foglie, il terreno, il metallo delle cancellate. “Che canzone era quella?” chiese infine Ryohei.

“Raindrops keep fallin’ on my head.”

Iniziai a intonarla. Conoscevo soltanto la prima strofa, con le stesse parole del titolo, e improvvisai il resto. Non sapevo nemmeno io cosa stessi cantando, ma amavo quella canzone, e mi pareva di dire qualcosa di bellissimo. I corvi che si erano riparati dalla pioggia spiccarono il volo; in pochi secondi raggiunsero un’altezza di almeno 20 metri, non feci nemmeno in tempo ad alzare gli occhi per seguirli. Anche le persone cominciarono a uscire dagli edifici, come tanti puntini neri, ognuno si metteva a parlare del temporale con la prima persona che gli capitava davanti. I tetti erano ricoperti d’acqua, l’intera città risplendeva come se fosse allagata. I cumulonembi si erano spostati a nord, mentre a ovest si stava aprendo uno spiraglio. Lo spiraglio diventò sempre più ampio, finché un cielo sereno e senza nuvole si estese oltre la città, fino al mare.

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Marilena Votta

Marilena Votta nasce a Napoli e trascorre la sua infanzia e adolescenza in un luogo fatto di sole accecante e ombre altrettanto tenaci. Ha pubblicato le raccolte di racconti Equilibri sospesi, La ragazza di miele e altre storie (Progetto Cultura, 2016) e Diastema (Ensemble, 2020), e la raccolta di poesie Estate (Progetto Cultura, 2019). Il suo racconto “Fratello maggiore fratello minore” è stato pubblicato nell’antologia “Roma-Tuscolana”. Alcuni suoi racconti sono disponibili su varie riviste on line e cartacee. Nell’ottobre 2021 pubblica il suo primo romanzo, Stati di desiderio, con D editore. Del suo rapporto con la scrittura asserisce, convinta, che è il suo posto nel mondo. Scrive recensioni di libri che ama per "Dentro la lampada", la rivista della scuola Genius.

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