La bellezza scorticata di un corpo disarmonico e un’anima destinata a sorreggerlo, è la narrazione viscerale che fa Livia, la protagonista, del suo sentirsi sempre fuori posto, una riga tracciata a bordo strada che non basta a tenerla al sicuro. Livia sente le cose in maniera estrema, è connessa con il dolore e la mancanza molto più dei suoi coetanei, figlia unica di un professore universitario e di un medico, si è sempre sentita esclusa dal rapporto amoroso tra i genitori, e la sua goffaggine adolescenziale è una modalità per tenere a bada il senso di inadeguatezza, anzi di moltiplicarlo, perché quel sentirsi triste trova motivo nei suoi chili di troppo. Una risposta alla domanda di chi le dice, quasi con fastidio “ma che ti manca?”, sospesa tra le ossessioni dei numeri multipli di tre e il bisogno di essere vista, il corpo sformato e poi ridotto all’essenziale, i jeans larghi sulle cosce.
È tutta così la vita di Livia: un corpo che si allarga e si restringe, il dolore che si fa fame e ingorgo di cibo dolce e nauseante, la bocca un forno che mastica e riduce in briciole biscotti e cornetti cremosi, nel tentativo, insano, di resistere alla palude emotiva che le alberga dentro, come una presenza, una seconda voce che si sovrappone, a quella giudiziosa, ubbidiente, di bambina e poi di donna che vuole sempre accontentare gli obiettivi che la società (e la madre, preoccupata e giudicante) le cuciono addosso. Così Livia rinuncia alla libertà e a un amore senza anelli al dito, a Ibiza, al bacio pieno di saliva e di desiderio di Rafael, per tornare alla sua facoltà di Economia, e a trovare in un pezzo di carta una sicurezza che tranquillizza prima di tutto lei, e poi il mondo. Il suo corpo diventa enorme come un guscio per proteggerla dai colpi della delusione, quasi che il grasso diventasse una forma alternativa di invisibilità, lasciandola alienata all’interno di un matrimonio che sembrava logico e perfetto, fatto di viaggi e privo di figli, nell’illusoria ripetizione di gesti che non basta ripetere per riavere le emozioni che li accompagnavano. Il letto matrimoniale diventa un fossato medievale, il lavoro in banca la corda che la strozza. Il Corpo le parla e le mostra la strada, l’unica possibile, per tornare a respirare senza avere il fiato corto e mozzato dall’ansia, la competizione che non le appartiene, un monito al quale disubbidire per restare vivi. Non tutti i corpi sono vivi, nella miriade di braccia, gambe, gomiti, schiena, mani e sederi che ci toccano, è un miracolo trovarne uno, o due, che ci sfiorano come se fossimo corde per farne musica. La pelle riconosce il miracolo prima che accada, e quello che la testa rifiuta, se il corpo lo accoglie, diventa Felicità.
Livia cerca di perdonare sé stessa per la ferita ancora aperta nel suo corpo sanguinante, per le parole mai dette alla madre, ora che le sta dimenticando, per il futuro, senza appigli che le si apre davanti, spalancato come il paese sognato da bambini. Un rischio. Perché a vivere davvero si rischia di morire, ma anche poi, per fortuna, di sentirsi sempre con la pelle che trasuda luce, la bocca aperta e le braccia a trattenere la gioia. Senza tradirsi.
Ogni parola di questo libro ha parlato al mio cuore, alla mia vita, vissuta, fino a un certo punto, secondo la sicurezza che credevo mi avrebbe tenuta all’asciutto. E anch’io, come Livia, sto trovando nella consapevolezza una strada che non mi faccia sentire straniata in un mondo che, a volte, non comprende chi sente il dolore a una velocità e a un’intensità più potente degli altri.
Quando lo trovi, un libro come questo devi leggerlo e rileggerlo, e sentire, quel grido, inarrestabile, che ti sale dal fondo della gola e rimane a galleggiare nell’aria. Per ricominciare esattamente là dove hai lasciato la tua vita vera, ad asciugarsi su una spiaggia, in attesa che il tuo Corpo, tornasse a prenderla.
Chiudo gli occhi e sono nel deserto. È notte e in fondo alle mie ossa questa giornata scrive un segreto. Provo a decifrare, provo a ficcarmi dentro le parole. È una lingua antica, è arrivata al mondo prima di me. Una lingua di radici, di becchi, di rami intrecciati, di esche e di madri.
Io non la so parlare.