La prima volta che ho sentito parlare di Fatal flaw, ricordo che era una stanza piena di gente, gente che come me voleva capirci qualcosa della propria scrittura, per il proprio modo di stare al mondo, voleva sapere come funzionava, insomma. Non ricordo il giorno, ma ricordo com’ero vestita, chi mi sedeva accanto, persino il colore blu della penna che mi avevano prestato.
Ma cosa significa Fatal flaw?
Letteralmente, significa “ferita fatale”, qualcosa che inchioda il nostro protagonista al passato, a tutto ciò che gli impedisce di andare avanti e che lo costringe a sopravvivere. Una mancanza così totale, assoluta, disperata, fatale, appunto, da non dargli tregua. E se quella ferita non sarà sanata, se il nostro eroe non farà conti con i propri demoni, avrà vita breve, così come il nostro romanzo o racconto.
Il Fatal flaw è il vero antagonista, il nemico numero uno del nostro eroe. Senza Fatal flaw non ci può essere nessun protagonista e non ci può essere nessuna storia.
E deve essere spaventosa e fatale quella ferita, proprio come spaventosa e fatale è la selva in cui si addentra Dante, o il labirinto in cui rischia di perdersi Teseo, oppure ancora, la discesa agli Inferi di Orfeo per riportare indietro la sua Euridice. È così fatale la ferita di Cassandra, da spingerla a disubbidire agli Dei e a trasformare ciò che desiderava di più, il dono della profezia, in una maledizione.
È la ferita che noi stessi, per primi che proviamo a scrivere, ci portiamo dentro con la mancanza che ci spinge a immaginare una storia, a intraprenderne il viaggio, senza sapere se saremo mai in grado, in salvo, se torneremo mai indietro davvero.
Pensate solo a quanto deve essere fatale una porta verso il vuoto, la prima immagine che ci spinge a scrivere un romanzo, che ci costringe ad arrivare all’ultima riga, frase, a quel punto, l’ultimo, che segna il confine, il limite estremo.
Fatal flaw… ricordo che quando ho sentito questa parola la prima volta, ho avuto la sensazione che qualcuno avesse messo il dito proprio lì, dove faceva più male, e che avesse spinto così a fondo che quella ferita dopo quasi vent’anni sanguina ancora. Ho capito cosa tornava e ritornava, che cosa mi ostinavo a scrivere, cosa ero capace e incapace di raccontare.
“Mentre le passavo accanto travestito da adulto”, pensa Humbert, la prima volta che vede Lolita, nel giardino di casa Haze. La sua Lou “ritta nel suo metro e quarantasette con un calzino solo”, ed è così fatale questa battuta e questa ferita, così spaventosa, da renderlo in qualche modo innocente, da assolverlo in qualche modo, facendo diventare così quell’orco, il personaggio indimenticabile che conosciamo.
Zio Alberto
Cosetta incontra inaspettatamente un lontano parente che aveva conosciuto solo nei racconti dei suoi familiari.