Finisci di leggere questo libro e ti senti ancorata ai legami evocati dai protagonisti dei racconti, il loro dolore, il loro tentativo di uscirne, di scendere, a volte, a patti con l’innominabile, la bocca che lascia uscire un velo di fiato. Quando credi di aver capito come va a finire c’è un colpo di coda improvviso, una rivelazione che brucia come un cubetto di ghiaccio messo su un livido appena prima che si formi. C’è una cosa della quale la scrittrice ti avverte, “noi siamo neri che viviamo in un mondo di bianchi”, una frase pronunciata da una delle protagoniste, il suo modo intrigante e personale per farti capire che non troverai rivendicazioni razziali e lotte a pugni chiusi. Eppure, nell’apparente serenità di famiglie perfettamente integrate, esistono sfaldamenti, un esotismo sfoggiato per esercitare potere, il senso frustrante di non essere mai abbastanza, la frenesia della corsa al successo, tutta tipicamente wasp, alla quale alcuni dei protagonisti dedicano le loro vite, abbagliati da quel grande impostore del sorriso a denti smaglianti mentre addenta una fetta di croccante torta di mele. Non sono bianchi ma vogliono esserlo, presi dal bisogno di dimostrare di essere bravi almeno quanto loro.
E ci sono anche i fuoriusciti, le ribelli per natura, le donne che diventano madri senza volere, e continuano a essere fedeli alla loro fame di novità, di continenti da attraversare. “Impari a essere quello che sei oppure muori fingendo di essere qualcun altro. Semplice.” Non si può rinnegare la propria fame, bisogna solo seguire la corrente. Questa è solo una tra le storie tradotte in linguaggio, un linguaggio che, il lettore lo sa, ha una magia prepotente, una forma di misticismo racchiusa che ti arriva come un dono.
C’è un patto di sangue tra due ragazzine, una bianca e un’altra afroamericana, o comunque di pelle scura, che fondano la loro amicizia sul comune senso di estraneità al mondo che le esorta a essere spensierate e felici a tutti i costi. Uno dei loro passatempi consiste nell’immaginare cosa si prova a morire in vari modi, quando la morte è solo una parola, al massimo un fastidio, o al più, una curiosità malsana. Poi, nel loro paradiso di feste con piscine e regali avvolti in una morbida carta crespa colorata, irrompe un evento destinato a incrinare la sicurezza del mondo adolescente abitato dalle due ragazzine e delle persone che le circondano.
Una donna perde il bambino che aspettava e sviluppa una forma di depressione rancorosa verso la piccola e adorabile e incolpevole figlia del marito. Presa da un dolore che diventa incomunicabile, si aliena dal mondo umano e trova conforto nell’osservare un polipo che morde i suoi stessi tentacoli, mosso da un senso di autodistruzione che le è familiare.
Un’altra donna non sa se tenere il bambino che aspetta, animata dalla paura di essere madre, anche se, come le fa notare la sorella, non ci sono impedimenti logici: un matrimonio felice, vicina ai 30 anni, un buon lavoro. Cosa ti fa desiderare di non voler tenere il bambino? Difficile dare una risposta che abbia senso, se non scavando nella paura di non essere adeguata, sopraffatta dall’ansia di corrispondere a un modello di perfezione al quale lei, pur sforzandosi, sente di non appartenere.
Una ragazzina, dopo aver subito delle molestie dal pastore, abbandona la vita dominata dalla religione che le imponeva la sua famiglia, e con un atto azzardato di ribellione, rende chiaro a sé stessa e al mondo asfittico che la inglobava, che è pronta per le tentazioni e che può superare il trauma dell’incomprensione, quella sensazione soffocante di usare parole che vengono fraintese o distorte.
Ci sono due fratelli che provano, faticosamente, a ricucire il loro legame frantumato dalla morte del padre, del quale la sorella, neanche troppo segretamente, incolpa il fratello, che non si era voluto sottoporre a un trapianto per offrire una possibilità di sopravvivenza al cancro del loro genitore. Il viaggio, iniziato per disperdere le ceneri del padre, conservate in un’urna e trattato, in maniera incongrua, quasi come un passeggero con la cintura allacciata, finisce con il portare a galla, come una macchia rossa sulla superficie oleosa del mare, un segreto inconfessabile, un legame oscuro. Però il sangue non si può tradire, la parentela, l’avere in comune un patrimonio genetico, per qualcuno richiede una lealtà talmente feroce da scarnificare la tua stessa pelle, il tuo proprio equilibrio. A rinunciare persino alla rabbia.
Un uomo benestante cerca la benevolenza negli avventori di un bar, cercando di vedere nei loro occhi il senso di riconoscimento che ti dà il possedere un po’ di soldi. La moglie malata di cancro, esasperata, sta cercando di fargli vedere il senso della sua scelta di non volersi sottoporre alla chemioterapia, rivendicando la sua libertà. Quando lui viene aggredito da un ragazzo nello stesso bar che frequentava da sempre, le sue certezze, il suo mondo falsamente sicuro implode, come una torta sbriciolata.
Una ragazzina rimprovera la madre nel modo classico che hanno le adolescenti, silenzi gommosi e rifiutanti, bigliettini nascosti nelle tasche e la consapevolezza, appena nata, di avere una bellezza capace di ottenere l’attenzione del professore di teatro. Il modo in cui la madre scoprirà la relazione, senza peraltro dire niente alla figlia, e la strategia rabbiosa che realizzerà, come un vessillo da agitare dopo aver perso la guerra, resterà un segreto colpevole: nessuno si accorgerà che, nelle modalità di una novella Medea, ha cucinato e fatto assaggiare al pranzo di fine anno scolastico i delicati molluschi che nuotavano nell’acquaio del professore.
Violazione, stordimento, sopravvivenza. Colori intensi, forti, corpi e sudore, liquidi e sguardi lascivi, colpevoli, supplichevoli, estenuati. La realtà abitata dai protagonisti delle storie di Dantiel Moniz è una realtà che sfugge alle definizioni, e che, come una serie di proiezioni su una parete, diventano una cosa e poi un’altra, nel tentativo, perfetto, di immortalare la sospensione, il momento in cui la vita ti viene addosso, e ti cambia, a volte rivelandoti che sei capace, sei forte, più di quello che pensavi di essere. Nonostante la perdita e l’inclemenza del tempo e la fragilità, rivoltata e deformata, dei legami.
Margot lasciò i vestiti in piccoli mucchi negli angoli dei camerini, sfilati dalle grucce e rivoltati. In un camerino bel illuminato, ignorò il cartello di plastica che diceva che tutti i capi andavano provati sopra la biancheria intima e si infilò un perizoma leopardato color verde acqua. Piroettò su sé stessa finché non cadde a terra, stordita, tra i top all’uncinetto, gli shorts di jeans, e le gonne hippie che sembravano candidi fiori appassiti. Aveva quell’età speciale in cui sapeva tutto e niente e non importava dove o chi guardasse, vedeva il proprio riflesso scintillare come una macchia d’olio. Poteva essere ancora chiunque.