Leggere le ultime lettere di Stefan Zweig e di sua moglie dal loro esilio americano fa un certo effetto in questo periodo, in cui assistiamo da lontano a una guerra nel cuore dell’Europa, che rischia di estendersi a tutto il continente. Sullo sfondo di queste lettere, che vanno dal 7 luglio del 1940 al 21 febbraio del 1942, due giorni prima che la coppia si suicidasse, c’è infatti la tragedia della Seconda Guerra Mondiale, vista fisicamente da lontano, ma emotivamente molto da vicino.
L’epistolario, che Castelvecchi ci propone, è preceduto da un’ampia introduzione in cui viene descritto il contesto ambientale e psicologico nel quale le lettere sono state scritte e le ripercussioni che il suicidio della coppia ebbe nel mondo intellettuale dell’epoca. Di particolare interesse è la rivalutazione della figura di Lotte Zweig, nata Altmann, seconda moglie dello scrittore austriaco, che ne condivise la tragica fine. Da presenza silenziosa e succube a fianco del celebre marito si trasforma in protagonista attiva, intelligente e consapevole, seppure indebolita da cattive condizioni di salute (soffre di ricorrenti crisi d’asma). La vediamo in prima linea davanti a giornalisti e fotografi nella tournee di conferenze che lo scrittore tiene in Sud America durante il loro primo soggiorno tra l’agosto del 1940 e il gennaio del 1941. La vediamo anche al centro delle relazioni e delle corrispondenze che la coppia continua a intrattenere, anche se in modo via via più sporadico, nei periodi successivi della loro vita, fino all’ultimo, quello dell’isolamento in un “bungalow” a Petropolis, località di villeggiatura in montagna, poco distante da Rio de Janeiro dove si sono dati la morte. Lotte, oltre che organizzatrice della vita domestica e protagonista della vita sociale, è una figura di riferimento per il marito, che va oltre alle attività di segretaria e di assistente di ricerca per le qual anni prima, quando non erano ancora una coppia, era stata da lui assunta.
Nelle lettere, indirizzate quasi esclusivamente al fratello di lei, Manfred, e alla cognata, Hanna, rimasti a Londra dopo che Stefan e Lotte erano partiti per il loto esilio americano, emerge una costante preoccupazione per le condizioni in cui si trova l’Europa, sconvolta dalla guerra, e per i profughi, soprattutto ebrei, che sono costretti a rifugiarsi nel continente americano. La coppia si dà continuamente da fare per procurare visti e affidavit ad amici e colleghi, grazie alle conoscenze di Stefan, e si occupa attivamente dell’accoglienza familiare di Eva, la figlia adolescente di Manfred e Hanna, che viene inviata a New York per essere messa al riparo dai rischi della guerra (in quel periodo Londra era sottoposta a ripetuti bombardamenti tedeschi). Accanto all’apprensione per le sorti della patria europea (Stefan Zweig era un convinto europeista ante litteram) si percepisce in queste lettere un senso di imbarazzo per la vita privilegiata che la coppia conduce in terra americana (per lo più in Brasile), non toccata dal conflitto. Gli Zweig nel loro primo soggiorno brasiliano fanno, loro malgrado, una frenetica vita mondana. Lo scrittore è una celebrità e tutti (associazioni culturali, governi, ambasciate, testate giornalistiche) se lo contendono, chiedendogli di tenere conferenze in lingue differenti (tedesco, inglese, spagnolo, francese) e di partecipare assieme alla moglie a ricevimenti, cene di gala e visite guidate. È un periodo caratterizzato da lunghi e frequenti viaggi in aereo da Rio de Janeiro alle altre capitali sudamericane e dallo sforzo di adattarsi a realtà culturali, linguistiche e climatiche differenti, per cui lo scrittore, pur vivendo i privilegi dell’uomo di successo, si sente schiacciato, alienato e non desidera altro che un po’ di pace per dedicarsi al proprio lavoro di scrittore. Troverà questa pace nel secondo periodo brasiliano, quello che va dal mese di agosto del 1941 fino alla morte. Sarà però una pace sinistra e inquietante nella quale, pur dedicandosi con impegno alle sue ultime opere, tra cui il completamento della sua autobiografia “Il mondo di ieri”, la stesura del racconto “La novella degli scacchi” e quella di una biografia di Amerigo Vespucci, sente il vuoto attorno a sé. In una lettera dell’ottobre 1941 scrive: “Le proporzioni di questo conflitto superano le umane possibilità di previsione e io cerco (invano) di non pensare al lontano futuro; scrivo i miei libri in una specie di tour de force solo per provare a me stesso che esisto ancora, ma so molto bene che il mio vero pubblico se n’è andato e non tornerà mai più e che sono come quel personaggio di Grillparzer che segue dal vivo il proprio funerale.”
Stefan Zweig è figlio di quel “mondo di ieri” multietnico e multiculturale che era rappresentato dell’Impero Absburgico e che per lui era l’incarnazione dello spirito europeo. Di quel mondo, cancellato dalla storia nel 1918, lui e con lui altri scrittori austriaci dell’inizio del Novecento si erano sentiti legittimi eredi, almeno fino a quando gli ottusi e criminali nazionalismi fascista e nazista non avevano devastato il vecchio continente.
Lo sguardo di Stefan Zweig dal suo esilio brasiliano è quello del rifugiato, di un uomo che ha perso non solo la patria, ma anche il mondo di valori in cui era cresciuto e per i quali aveva combattuto con la sua arte cosmopolita e raffinata. Quando si toglie la vita ha sessant’anni ed è convinto che le prospettive del conflitto, dilagato ormai in tutto il mondo dopo l’attacco giapponese di Pearl Harbor, siano così lunghe e incerte da precludergli definitivamente il ritorno a una vita normale. “La questione per me”, aveva detto in una lettera di qualche mese prima, “è di sapere se dopo la guerra mi resteranno ancora abbastanza forza e ragione da apprezzare la vita”. La moglie Lotte, dal canto suo, è sfiancata dalla salute cagionevole, dalla depressione del marito e dalla vita nomade che con lui aveva condotto e che aveva portato entrambi all’isolamento. La sua decisione di seguire il marito nel suo ultimo viaggio non è però un atto di debolezza e di condiscendenza, come i biografi hanno fatto finora intendere. Le lettere ora pubblicate ci rendono l’immagine di una donna che, anche in questo suo estremo gesto, mostra dignità e consapevolezza: “Andarsene così” dice nella sua ultima lettera alla famiglia “è la cosa migliore che possiamo fare ora.”
Queste lettere sono uno strumento prezioso per comprendere meglio gli ultimi anni di vita di Stefan Zweig e della moglie, anni d’esilio, di sradicamento, di isolamento, come quelli vissuti da tanti profughi in periodo di guerra, anche se in questo caso si tratta di profughi “privilegiati”. Un privilegio però che non li ha risparmiati da un tragico epilogo.