La ricerca di una identità non è mai facile, se poi sei americana ma con genitori egiziani e palestinesi, allora le cose si complicano. I protagonisti di questi racconti sono persone, uomini e donne o ragazze, queer, in cerca di stabilità, d’affetto. Alcune sognano l’amore, altre, incinte e sole, lo maledicono. Tutti e tutte sono sospesi in cerca di un luogo emotivo, oltreché fisico, in cui sentano di essere attesi. Tutti e tutte sono preda del loro caos, stravolti dal desiderio di essere arabi e americani, divisi tra la lealtà alla bandiera stelle e strisce e alla mezzaluna.
C’è una donna che ha indossato il velo come voto, uno scambio fatto con Dio al superamento di un trauma della figlia, che deve fare i conti con i dubbi della sorella sulla reale volontà di Dio, quando investe con la macchina una bambina in Egitto.
C’è una ragazza che, dopo la morte del padre cerca il posto giusto per spargere le sue ceneri, ma non lo troverà nel paese di origine del genitore, ma nel luogo impersonale e anonimo della sua morte: un solitario e sonnecchiante vagone di un treno metropolitano, senza nessun segno visibile che ricordi l’esistenza di un uomo che ha amato la vita e le storie.
Una ragazzina viene rapita in un supermercato e viene cresciuta con un nuovo nome in una comune femminile, dove si insegnano i principi del veganesimo e della solidarietà. Pur ricordando la famiglia di origine e la dolce sorellina, da grande non fa nulla per ritrovarle, convinta che la sua vita sia andata nel modo giusto.
Ogni storia, anche quelle più brevi, tentano di sanare la ferita degli apolidi intimi, quelli che hanno il cuore e le radici perse in un altro paese, ma che ormai è così distante dal loro mondo, che ormai neanche quel posto vagheggiato e al quale ogni tanto si torna per una visita, può essere casa. Allora forse casa sono gli affetti, i fragili gesti di gentilezza e i tentativi di stabilità.
L’ultimo racconto, folgorante per la sua intensità, è la storia di Zelwa la mezza, mezza umana sopra e mezzo stambecco di sotto, che cerca di ricomporre il suo corpo ubiquo a unità. Eppure, nonostante il padre desideri una figlia interamente umana, senza esserlo davvero neanche lui, Zelwa vuole soltanto essere sé stessa, con le sue contraddizioni, la sua frattura esposta, in mostra per il solo fatto di esistere. La verità sta nell’accettazione della sua bisessualità e nella sua non completa umanità.
Quanto ci sia di vero in queste storie non lo so, so che ognuno che cerchi di vivere la propria vita senza accontentarsi di verità comode, paga dei prezzi altissimi in termini di solitudine e abbandono, spesso di ripudio all’interno della propria famiglia.
Abbiamo tutti i palmi delle mani ferite e quelle tracce di sangue sono il maldestro tentativo di dire, stupefatti, increduli: non siamo perfetti, siamo soltanto come siamo. Non possiamo scegliere il nostro aspetto ma possiamo scegliere chi decidiamo di diventare, restando fedeli alle nostre contraddizioni.
E per le ragazze e per le donne, è sempre davvero più difficile. Ma non ci arrendiamo.
Ho fissato le scaglie sulla coda, e allora, al suo sorriso, sono andata al galoppo verso di lei e mi sono stesa sull’erba accanto, accanto alla sirena che è ancora qui, con me. La mattina lei prepara il caffè e mi assilla per comprare la carta igienica di ritorno dal lavoro, e io rido perché tutti sanno che i mezzi non usano il bagno. Le domeniche facciamo yoga sul giardino sul retro. Io metto le mie braccia sui miei zoccoli e lei sulle sue scaglie, e insieme cantileniamo i nostri Om, e lei mi ricorda “Non c’è unità nella dualità. Niente è uno e niente è doppio. Tu sei entrambi.” Allora facciamo i nostri saluti, i nostri corpi come specchi che riflettono il sole intero e perfetto.