Un ragazzo si aggira solitario in un mondo ricoperto di immondizia dall’odore nauseabondo, vive tra la sua tenda logora e un’improvvisata stazione radio in cerca di segnali da altre persone. I cumuli di sacchi sembrano creare percorsi e muoversi senza apparente ragione, aggirandosi tra la sporcizia troverà il senso di quel mondo ostile e vuoto.
Capitolo 1
Vedo sempre lo stesso albero. Un grosso leccio dalle foglie cangianti. Lo vedo che mi sembra di sentirlo parlare. Sarà circa un metro, anzi mezzo metro di corteccia e un ramo e una decina di foglie e parla scricchiolando quando c’è vento. Il poco vento che riesce ad arrivare fin qui. Indosso la maschera protettiva, gli elastici dietro le orecchie la plastica si opacizza per via del respiro e la spugna imbevuta di acqua limita l’odore nauseabondo dell’esterno. Esco fuori dalla tenda, incasinata, piena di avanzi di acqua fangosa. Questa tenda Quechua logora, la guardo. Esco perché ho sete. Percorro il sentiero che mi sono aperto dopo essere arrivato qui, ho spostato con le mani cumuli di immondizia, un po’ alla volta. Mi sono sistemato tra i rifiuti non ricordo più quando.
Premo la plastica intorno alla spugna sul viso con forza, mi gratta il naso. Buffa e utile questa maschera. Mi fa sentire protetto, un po’. Ci sono odori cui non ti abitui mai.
Sposta l’umido, che è il peggio, poi la plastica che scrocchia, spingi l’indifferenziata che è un miscuglio. Ma l’umido quando il sole cuoce quel po’ di asfalto rimasto visibile, puzza di una puzza infernale che ti scava dentro le narici e ti graffia il cervello.
Scivolo dentro una grossa pozza di liquame, l’acqua è una piccola parte solvente di tutti i detriti accumulati. Ci immagino una fontana d’acqua fresca, immaginarla mi disseta, cosı̀ intorno a quella pozza ho tirato su una piccola diga con un reticolo, visto mai un acquazzone diluisca il liquame putrescente e si decida di far sgorgare acqua un po’ limpida per me. Non è mai successo. Però è successo che ho avuto l’impressione di vederci riflesso il viso di una donna. Una giovane donna dai tratti familiari. Mi è capitato quattro o cinque volte ma poi nulla, sparita. Credo fosse la sete a darmi allucinazioni. Per un paio di volte invece, piuttosto, la fanghiglia ha assunto toni marrone chiaro dopo una pioggerella e me lo sono fatto andare bene, tracannata d’un fiato.
Sacchi su sacchi ammucchiati intorno al percorso schiudono la strada; penso alla pozza ormai alle mie spalle e cerco di salvare quell’idea di bello che l’acqua trasmette quando sei disidratato, fresche tonalità azzurro turchese per dissetarmi. La gola brucia.
La stradina si snoda attraverso un avvallamento di immondizia più basso. Sacchi neri, qualcuno aperto vomita polvere di caffè , banane liquefatte resti organici di decenni. Tempo fa, mi sembra fossi appena arrivato su questa sponda Ovest quando ancora l’immondizia intorno non era ancora cosı̀ tanta da occludere tutto, ci trovai un portafogli e un euro.
Mi chiedo se la puzza sia l’odore del mondo, cioè se ovunque ora a New York o a Tokyo o a San Paolo la puzza sia tutta uguale. Muovo le mani nere sporche e penso che l’odore che mi intasa le narici sia l’odore di quel nero.
Mi torna in mente quell’euro che da piccolo mio padre usava per il caffè caldo in tazza grande. E chi li usa più i soldi, per non parlare del caffè caldo in tazza grande. Nero che se mi sforzo sento persino l’aroma di liquirizia e legno, sospiro con gli occhi chiusi.
Rido. Mi passo la lingua secca tra i denti e mi tiro fuori il pisello per pisciare. Piscio poco, dritto dritto accanto a quello che era un “nasone”; la fontanella è in un angolo vicino ad alte scale, giro la testa, guardo, mi sembra ci siano più sacchi accatastati rispetto a ieri. È strano, come possono aumentare se sono rimasto solo, non incontro umani da decenni, come è possibile? grido:
– C’è nessuno? C’è n e s s u n o?