A un ex professore di chimica in pensione viene commissionata una consulenza su una sconosciuta piantagione di caffè nel cuore dell’Africa.
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Terza puntata
Castelli apre gli occhi. Vomita bile e l’alcol che ancora non è evaporato nel sangue.
– Salve Professor Castelli.
Il professore muove la testa, si guarda intorno, il secondo conato svanisce. Ti fai un giorno di viaggio, ti cappotti in Africa schiantato su un albero, vedi un morto, prendi una fucilata sul naso e ora che succede?
– Sono Sir Francis Mc Hamay. Mortificato per l’arrivo rocambolesco. Il mio assistente Hope ha perso la vita, una disdetta. E credo vi abbiano derubato.
Derubato. Mi hanno derubato. Pensa Castelli prima di parlare.
– Derubato?
– Sì. Non vedendovi arrivare, Melanie, la mia cuoca, mi ha portato sul percorso che porta fin qui a ritroso verso l’aeroporto. Ho trovato lei svenuto sulla strada, Hope senza vita e la mia Mercedes distrutta. Una delle Mercedes, sia chiaro, ma comunque distrutta. Altro non c’era, dubito lei abbia viaggiato privo di bagagli.
– I documenti, il visto! – La voce di Castelli è più uno squittire.
– Ma dove sono finito per Diana.
Mentre si lamenta suda. Fin da ragazzo lo riteneva un motivo di imbarazzo. Ora con l’abitudine lo sopporta.
– Si calmi, è un miracolo sia vivo. Ora, capisco il trauma e lo spavento, ma dobbiamo metterci a lavoro.
– A lavoro? Non ci penso proprio. Per favore mi lasci rientrare in Italia. Le restituirò la caparra, mi pago il biglietto e lei è come se non mi avesse mai visto.
Castelli prova ad alzarsi, il vomito è più potente delle vertigini. Rovina a terra in una poltiglia di bile dall’odore acre con note di alcol.
Sir Mc Hamay non si muove. Abito di lino, scalzo, barba curata e occhiali da vista dalla montatura spessa e ricercata, resta immobile. Gli occhi, piccoli, non comunicano alcuna emozione. Castelli ne osserva da terra il cerchio nero che contorna l’iride.
– Professore. Come suggeriva anche lei, non ha documenti per via del furto e l’urto sul lato della testa le causa vertigini che, per fortuna, svaniranno presto. Al momento posso aiutarla a ottenere in tre giorni un visto di uscita per rientrare in Italia. Prenda queste pasticche, poi parliamo di lavoro.
L’olfatto per Castelli è basilare e dall’incidente sembra sia uscito intatto. Respira la stanza con tutti i polmoni aperti.
L’aroma di caffè, il glicine, un denso sentore di banane e terra umida sono gli odori che tra un conato e un moto d’ira ricompongono lo straccio cui è ridotto. Segue gli aromi, scova un lieve odore di cera lacca ma su tutti, non può confondersi, coglie un odore importante di zolfo.
Si alza con attenzione reggendosi al tavolo. Prende le pillole. Barcolla, si muove, respira.
– Non ha nulla che con una bella dormita non si possa curare. Mi segua.
L’ampia stanza in stile coloniale è illuminata da candele, la pancia di Castelli borbotta. Quel borbottio è un preludio all’inferno, esistono richiami corporei che l’esperienza trasforma in consuetudine. È bene non ignorarli.
Si trascina dietro Sir Mac Hamay, l’uomo ha un passo svelto, deciso, a tratti sembra sfiori il pavimento. Castelli è uno sfacelo, lento, sporco e pronto a riempirsi le mutande di diarrea.
Un’enorme cucina accoglie il professore. La parete è tutta un cimelio di caffettiere italiane, turche, macina caffè di bronzo, d’argento, di ferro e Castelli è certo di intravederne uno d’oro.
– Vede professore. Il caffè è la mia vita. Conosco ogni pianta, ogni aroma, i colori delle ciliegie che crescono, i sentori di chicchi crudi e tostati, le forme, le mani ruvide che li colgono. Io coltivo caffè perché il caffè racchiude la vita e la morte. Conosco ogni leggenda che narra la sua origine. Ed è per questo che lei è qui. Deve trovare la prima pianta di caffè della storia. La prima in assoluto.
Il professore a malapena si regge in piedi. Ma quel tono, quella voce che è un filtro di certezza granitica è una freccia di adrenalina nel cuore.
Quel vibrare nella voce del ricco possidente solletica la sua esperienza. Un altro crampo forte e deciso gli attraversa la pancia.
– La prima pianta di caffè? – Chiede Castelli.
Poi riflette. È un ciarlatano? dovevi chiedertelo prima di accettare i suoi soldi, dovevi rimanere a casa e forse, ma solo forse. Cretino ingenuo imbecille.
Finisce sempre con il parlare a sé stesso e a rimproverarsi, fin da bambino.
Ecco lì che prende il controllo il basso ventre. Sente quel calore riprovevole scaldare la pelle e annacquare i boxer.
Quanto all’imbarazzo, tra sangue sudore e diarrea Castelli quasi si sente in dovere di restare. Fa un cenno, tossendo, di dove andare al bagno. Sir Mac Hamay indica una porta dalla parte opposta della cucina dove Castelli si dirige camminando sbilenco.
Il bagno è alla turca, l’acqua esce da una pompa a mano. I pantaloni sono salvi, è ciò che conta. Si spoglia, per quanto sia degradante la situazione, inizia a sentirsi meglio. Toglie i boxer li arrotola e li lascia dentro un piccolo cestino. Con difficoltà pompa un po’ di acqua sulla mano per sciacquarsi; era un ragazzino quando questo suo problema ha iniziato a manifestarsi. Guarda tu se devo cagarmi sotto per tutta la vita. Altro che diarrea del viaggiatore.
Concluso il rituale, raggiunge Sir Mac Hamay che non dovrebbe essersi accorto di nulla.
– Tutto bene, professore?
– Sì. Mi sento meglio, ho solo un po’ di vertigini. La seguo.
Fuori dalla casa coloniale gruppi di moscerini ronzano intorno alle lampade a olio. Tutto intorno la luna brilla.
È sempre e comunque emozionante andare all’origine, pensa Castelli.