Il mondo immerso nella bolla del benessere straniante degli anni 80, è quello narrato, con voce dolente e lucida, da Mori Yoko, un mondo pervaso da inquietudini e crepe destinate a disintegrare l’apparente integrità e durezza dei valori giapponesi. Le protagoniste dei racconti, che spesso si chiamano come l’autrice, sono donne perse dietro le loro illusioni, il bisogno di riaffermare con forza un’identità che non può essere chiusa dietro le maschere di moglie e madre. Il matrimonio combinato, gli incontri organizzati dai sensali, gli o-miai, sono ancora una realtà potente, capace di risolvere la vita a molte ragazze per le quali l’orologio biologico chiama a una vita di responsabilità e procreazione al servizio della società.
Non sono tutte ammantate da un’aura di gentilezza o di giustizia le ragazze di Mori Yoko, anzi spesso sono donne avide, frustrate, in lotta con le amiche, ansiose di afferrare il piacere con i denti, anche a costo di strapparlo via a un’altra.
Il racconto lungo che apre la raccolta, Fame d’amore, è emblematico dell’insoddisfazione sentimentale e sessuale di una giovane madre, che, apparentemente ha tutto: un marito inglese che le permette di vivere come vuole, una figlia piccola. Eppure, quella fame la divora da dentro come una bocca di lupo, aggressiva e suadente, al punto da spingerla a mentire a Lane sul fatto di non essere sposata, un americano incontrato nella vita notturna di Roppongi, in un locale frequentato da occidentali e giapponesi decisi a consumare brevi avventure erotiche. Quello che sembrava essere una relazione poco impegnativa per Yoko, un furin (così vengono chiamate in Giappone le relazioni mordi e fuggi), in realtà le porta un senso di identificazione dolorosa, una capacità di far combaciare la passione sessuale con la parte emotiva più segreta.
Spesso, nella lucida patina dei matrimoni giapponesi manca la passione, e del resto, nessuno si aspetta fedeltà, quello che conta è la discrezione, non gettare il disonore sul buon nome della famiglia.
Yoko non riesce a vincere la sua naturale paura di ammettere la doppiezza della sua vita con Lane, e, immersa in una sorta di stupore catatonico, lascia che lui incontri il marito quando sono insieme, ferendolo in maniera evidente. Quello che le rimane è la malinconia di aver sentito un’unione che l’ha soddisfatta, ma non ha saputo vincere le ritrosie insite nel bisogno di sicurezza che le garantisce il matrimonio.
C’è un’atmosfera struggente di vite incompiute, a volte sospese, in questi racconti, alcuni molto brevi, dove le risposte a cosa siamo noi su questa terra, se valga la pena essere consapevoli e soffrire sia meglio di una via torpida e assonnata ma meno dolorosa, non sono mai scontate. Ogni pelle di donna ha qualcosa in comune con le altre, anche con le diversità ovvie, ma tutte gridano contro i recinti e gli acquari in cui devono stare in mostra, farsi ammirare come animaletti graziosi dai denti spuntati, innocue. Ma le parole prendono la rincorsa e la rivincita e superano ogni silenzio.
Il rivendicare un mondo intimo, oltre quello familiare è emblematicamente racchiuso nelle poche parole di dialogo, probabilmente ispirate a una vicenda personale, in cui il marito rinfaccia alla moglie che, ogni volta che lei pensa ad altre persone che non siano la sua famiglia, in realtà sta consumando un tradimento “noi membri della famiglia ci sentiamo trascurati non soltanto quando pensi a qualcun altro, ma anche quando, immersa nel romanzo che stai scrivendo, hai la testa tra le nuvole”. Quindi la condizione di moglie e madre, per un marito, può essere incompatibile con la libertà che le storie danno alla scrittrice, perché “una stanza tutta per sé” è ovviamente, un luogo emotivo ancora da conquistare.
Mori Yoko è morta anni fa, lasciandoci queste tracce preziose della sua anima dolorante e sensibile, connessa a ogni fremito dell’animo femminile. Leggendo questi racconti si scopre che l’Occidente e il Giappone non sono poi mondi così diversi, un’unica curva di comprensione che li unisce, attraverso il legame vibrante tra chi ha scritto di un mondo la cui bolla gaudente è ormai esplosa, e il lettore, per il quale le storie di questo mondo sono ancora vive e vitali, ricoperte di una patina di ansia dorata.
L’estate stava per finire.
Il mio mese di vacanza, durante il quale mi ero sentita così abbandonata, si era concluso. Era la metà di agosto, quando, alla radio, sentii della morte improvvisa di Elvis Presley: l’ultimo barlume di gioventù, l’ennesimo, si era spento in qualcuno.
Rimasi incantata dalla luce che filtrava attraverso i rami degli alberi, dai raggi chiari che si riversavano sull’erba nel giardino. In un istante l’impeto del mio cuore si placò, e in quella debole onda le ferite ancora aperte sembravano quasi dimenticare il ricordo della sofferenza.