“I Profeti” di Robert Jones Jr (Frassinelli)

tutto è destinato a implodere, e la dissoluzione è annunciata dalle voci dei non più vivi, che aleggiano sulla terra che li ha assorbiti

Nel mondo cruento e spaventoso dell’America del Sud, schiavista e oppressiva, dove anche il desiderio sessuale deve corrispondere al bisogno del padrone, e le famiglie possono essere separate, i figli letteralmente strappati dalle braccia dei genitori, lasciati a inghiottire la polvere sollevata dai carri, nasce un amore visto come sovversivo ed escludente, non solo dai bianchi, ma anche all’interno della comunità nera.

Samuel e Isaiah, si amano, si appartengono, ma il loro amore infecondo genera sospetto e risentimento, e poi, brutale condanna. Gli schiavi devono accoppiarsi e generare prole utile, che possa essere oggetto di guadagno futuro, o braccia da usare nella piantagione, e un amore omosessuale è fuori dal controllo. I Due, così sono conosciuti all’interno della comunità, e il loro legame è evidente al mondo fin da quando la sessualità adolescenziale prende il posto della complicità infantile. Ma a un certo punto i Due vengono classificati come abominio, e la loro diversità, tollerata fino a quando non diventa troppo evidente per essere taciuta, va cancellata come una parola sbagliata.

Nel micromondo che li circonda prendono vita le voci, stroncate dalla cattura, dei progenitori africani, in un mondo dove ogni essere sceglie da adulto la sessualità che sente più vicina alla sua anima, dove le unioni tra persone dello stesso sesso sono benedette dalla comunità, purché siano sincere e amorevoli.

A queste voci si sovrappongono quelle dei genitori di Isaiah, come in una narrazione che ricorda Jazz della compianta Toni Morrison, in cerca del loro figlio venduto, al quale è stato portato via il nome che gli avevano dato, Kayode, colui che sparge gioia. Isaiah, vuole trovare quel nome, di cui ha un vago ricordo, perché insieme a quella parola vuole ricordare l’odore di sua madre, ma l’unica persona che potrebbe aiutarlo è anche colui che trova oltraggiosa la sua scelta di vita, perché espone l’intera comunità al sospetto e al risentimento del padrone. Infatti, saranno denunciati e torturati, prima che l’ossessione della famiglia del padrone per i loro corpi perfetti, decida di provare a separarli.

Una piantagione di schiavi è un luogo dove convivono forme accettabili di concessioni, ma negata ogni scelta che non sia stata voluta dall’arbitrio puro di chi può legarti, o regalarti un vestito e poi riprenderselo.

I figli della balia, Maggie, altra voce dal timbro incandescente, le sono stati portati via, e le viene imposto di nutrire i figli bianchi del padrone, che, misteriosamente, non sopravvivono, tranne uno, il debole e imbarazzante Timothy, acceso di desiderio per gli uomini, e che vuole essere ammesso nell’amore esclusivo di Samuel e Isaiah.

I bianchi, quando appaiono in Africa, con i loro odori spiacevoli, la loro morale ipocrita, che serve a creare una breccia prima di tradirli in nome di un Dio i cui insegnamenti vengono rivisitati e usati come mezzo di sopraffazione, vengono chiamati “uomini senza pelle”, dove il loro colore pallido corrisponde alla mancanza di identità strutturata. Gli uomini senza pelle fanno sorridere perché somigliano a bambini stupefatti di fronte alle verità semplici dell’amore, e del re della tribù che è una donna, la cui sessualità non ha mai costituito un ostacolo al comando. Eppure, dietro i loro sorrisi acidi si nascondono armi che nessuna lancia o freccia è in grado di sconfiggere.

I sopravvissuti devono fare molte rinunce per continuare a restare vivi, le ferite in vista come marchi impressi sulla pelle color prugna, le intense sfumature digradanti del nero, che virano verso tonalità più chiare quando il padrone fa dei figli con le donne che possiede e genera dei bambini mulatti, come Adam, bello e intelligente, un paria per entrambe le comunità.

Nel cerchio magico di questa comunità tutto è destinato a implodere, e la dissoluzione è annunciata dalle voci dei non più vivi, che aleggiano sulla terra che li ha assorbiti.

L’amore, intatto, tra Isaiah e Samuel, aleggia sulle inarticolate speranze ridotte in cenere di chi è disposto a morire pur di non essere più schiavo, e chi, invece, si accontenta di poter avere un luogo attorno al quale girare come un cane alla catena. Questo libro è per chi ama la lingua lirica e avvincente che già apparteneva a Toni Morrison. Questo libro è per chi vuole conoscere il dolore dietro le storie. Questo libro è per chi ama i simboli che si rivelano a chi sa avere i sensi tesi per scoprirli.

Non avere paura del buio.

Perché è ciò che sei.

Dicevano che eravamo spregevoli, ma non era vero, per niente. È stato naturale, davvero. Lui mi capiva anche se non dicevo una parola. Capiva che cosa stavo pensando solo vedendo da che parte stavo guardando…o non stavo guardando Così quando mi ha guardato dentro…mai prima qualcosa o qualcuno aveva avuto su di me un tale effetto, tutto nella mia testa mi diceva no, ma niente nel mio corpo mi permetteva di ascoltarla.

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Marilena Votta

Marilena Votta nasce a Napoli e trascorre la sua infanzia e adolescenza in un luogo fatto di sole accecante e ombre altrettanto tenaci. Ha pubblicato le raccolte di racconti Equilibri sospesi, La ragazza di miele e altre storie (Progetto Cultura, 2016) e Diastema (Ensemble, 2020), e la raccolta di poesie Estate (Progetto Cultura, 2019). Il suo racconto “Fratello maggiore fratello minore” è stato pubblicato nell’antologia “Roma-Tuscolana”. Alcuni suoi racconti sono disponibili su varie riviste on line e cartacee. Nell’ottobre 2021 pubblica il suo primo romanzo, Stati di desiderio, con D editore. Del suo rapporto con la scrittura asserisce, convinta, che è il suo posto nel mondo. Scrive recensioni di libri che ama per "Dentro la lampada", la rivista della scuola Genius.

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