Inizia da oggi una nuova rubrica: “le pagine più belle”, secondo il mio punto di vista, dei romanzi e dei racconti della letteratura classica e contemporanea.
È parte del mio lavoro di editor selezionare pagine letterarie dalle quali prendere ispirazione, soprattutto quando devo leggere in aula qualcosa che possa dare una scossa agli autori che curo. Ma in realtà è un mio vecchio pallino: sto ancora cercando la pagina perfetta, la pagina che racchiuda tutto il senso dell’esistenza.
Questa settimana inizio con un grande classico: “L’isola di Arturo”. Elsa Morante racconta la storia di un ragazzino che non è mai uscito dall’isola in cui vive e aspetta che il padre, grande viaggiatore, un giorno lo porti con sé in uno dei suoi viaggi leggendari.
In questo episodio Arturo prova a fare colpo sul padre.
Buona lettura.
L’isola di Arturo di Elsa Morante
Guapperie inutili.
I libri che mi piacevano di più, è inutile dirlo, erano quelli che celebravano, con esempi reali o fantastici, il mio ideale di grandezza umana, di cui riconoscevo in mio padre l’incarnazione vivente.
S’io fossi stato un pittore, e avessi dovuto illustrare i poemi epici, i libri di storia ecc., credo che, nelle vesti dei loro eroi principali, avrei sempre dipinto il ritratto di mio padre, mille volte. E per cominciare l’opera, avrei dovuto sciogliere sulla mia tavolozza una quantità di polvere d’oro, in modo da colorare degnamente le chiome di quei protagonisti.
Come le ragazzine si figurano le fate bionde, le sante bionde e le regine bionde, io mi figuravo i grandi capitani e guerrieri tutti biondi, e somiglianti, come fratelli, a mio padre. Se in un libro un eroe che mi piaceva risultava, dalle descrizioni, un tipo moro, di statura mezzana, io preferivo credere a uno sbaglio dello storico. Ma se la descrizione era documentata, e proprio indubbia, quell’eroe mi piaceva meno, e non poteva essere più il mio campione ideale.
Quando Wilhelm Gerace si rimetteva in viaggio, ero convinto che partisse verso azioni avventurose ed eroiche: gli avrei creduto senz’altro se m’avesse raccontato che muoveva alla conquista dei Poli, o della Persia come Alessandro il Macedone; che aveva ad attenderlo, di là dal mare, compagnie di prodi al suo comando; che era uno sgominatore di corsari o di banditi, oppure, al contrario, che lui stesso era un grande Corsaro, o un Bandito. Lui non faceva mai parola sulla sua vita fuori dell’isola; e la mia immaginazione si struggeva intorno a quell’esistenza misteriosa, affascinante, a cui, naturalmente, lui mi stimava indegno di partecipare. Il mio rispetto della sua volontà era tale che non mi permettevo, neanche in pensiero, l’intenzione di spiarlo, o seguirlo, di nascosto; e non osavo neppure d’interrogarlo. Volevo conquistare la sua stima, e magari la sua ammirazione, sperando che un giorno, finalmente, lui m’avrebbe scelto per suo compagno nei viaggi.
Intanto, quand’eravamo insieme, cercavo sempre l’occasione di mostrarmi valoroso e impavido ai suoi occhi. Attraversavo a piedi nudi, quasi volando sulle punte, le scogliere arroventate dal sole; mi tuffavo nel mare dalle rocce più alte; mi davo a straordinarie acrobazie acquatiche, a esercizi vistosi e turbolenti, e mi mostravo esperto in ogni sistema di nuoto, come un campione; nuotavo sott’acqua fino a perdere il fiato, e riaffiorando riportavo delle prede sottomarine: ricci, stelle di mare, conchiglie. Ma inutilmente, spiando verso di lui da lontano, io cercavo nel suo sguardo l’ammirazione, o almeno l’attenzione. Sedeva a riva senza badarmi; e appena io, disinvolto, fingendomi noncurante delle mie imprese, lo raggiungevo di corsa, e mi gettavo sulla sabbia presso di lui: lui si levava con una mollezza capricciosa, gli occhi distratti e la fronte corrugata, come se ascoltasse un invito misterioso, mormoratogli all’orecchio. Alzava le braccia pigre; si lasciava, steso sul fianco, nel mare. E si allontanava nuotando lento lento, quasi abbracciato al mare, al mare come a una sposa.
Notizie di Pugnale Algerino.
Finalmente, un giorno, io credetti arrivata l’occasione, che avevo sempre aspettato, di dargli la grande prova di me! Ci bagnavamo insieme, e nuotando egli smarrì nel mare, inspiegabilmente, il suo famoso orologio anfibio, del quale andava fiero e che portava anche in acqua. Fummo assai contristati della perdita; lui guardava il mare con una smorfia di rabbia, poi si riguardava il polso nudo; e mi rispose con un’alzata di spalle quand’io mi offersi di andargli a ricercare l’orologio nei fondi sottomarini. Tuttavia, mi cedette la sua maschera subacquea; e io partii, fremendo d’ambizione e d’onore. Lui rimase a aspettarmi sulla riva.
Esplorai tutti i fondi, nel tratto che avevamo percorso prima bagnandoci: le acque, là, non sono molto alte, e sono interrotte da secche e scogliere. La mia ricerca si prolungava, gli scogli alti mi nascondevano alla sua vista; e io riaffiorando ogni tanto per riprender fiato, udivo i suoi fischi di richiamo. Da principio lo lasciai senza risposta, perché mi vergognavo di non potergli annunciare una vittoria; ma infine, per rassicurarlo che non ero sparito nel mare come l’orologio, gli risposi, dall’alto d’uno scoglio, con un lungo fischio. Mi guardò in silenzio, senza nessun cenno; e io, a riguardare la sua persona dorata dall’estate, e segnata al polso da un cerchio più bianco, decisi: «O tornare da lui con l’orologio, o morire!»
Mi riagganciai la maschera, e ripresi la mia esplorazione. Oramai, ritrovare l’orologio non significava soltanto la riconquista d’un tesoro, non era più una questione d’onore soltanto. Quella ricerca aveva preso per me uno strano senso fatale, la sua durata trascorsa mi pareva già incommensurabile, e il suo termine quasi un traguardo della mia sorte! Erravo per quei fondi variegati e fantastici, fuori dai regni umani, bruciando, minuto per minuto, questa speranza ineguagliabile: di splendere, come un prodigio, agli occhi di Lui! Era questa, la posta grandiosa ch’era in gioco! E nessuno per aiutarmi, né angeli né santi da pregare. Il mare è uno splendore indifferente, come Lui.
Le mie ricerche rimanevano inutili; estenuato mi tolsi la maschera, e mi aggrappai con le mani a uno scoglio per riposarmi. Lo scoglio mi nascondeva la vista della riva, e nascondeva a mio padre la scena della mia sconfitta. Ero solo, in un campo senza direzione, peggio d’un labirinto.
Ora mentre, aggrappato allo scoglio, mi bilanciavo tristemente sull’acqua, a un movimento che feci intravidi uno scintillio metallico al sole! Puntando le due mani saltai sullo scoglio, e scopersi l’orologio smarrito, che scintillava in una cavità asciutta della roccia. Era intatto, e accostandomelo all’orecchio udii il suo ticchettio.
Lo rinchiusi nel pugno, e, con la maschera appesa al collo, in pochi secondi raggiunsi la spiaggia. Gli occhi di mio padre s’illuminarono al vedermi arrivare vittorioso. — L’hai trovato! — esclamò quasi incredulo. E in atto di possesso, e d’affermazione d’un diritto, mi strappò dalle mani l’orologio, come fosse una preda ch’io potessi contendergli. Se lo accostò all’orecchio, e lo riguardò con soddisfazione.
— Era là, su quello scoglio là! — io gridai, ancora ansimante. Ero fuori di me, avrei voluto saltare e ballare, ma fieramente mi contenevo, per non mostrare che davo troppa importanza alla mia impresa. Mio padre guardò verso lo scoglio corrugando i sopraccigli, soprapensiero:
— Ah, — disse dopo un poco, — ora me ne ricordo. Me lo son tolto mentre cercavamo i frutti di mare, per prendere delle patelle attaccate in mezzo alle punte dello scoglio. Poi tu m’hai chiamato per mostrarmi un riccio di mare che avevi preso, e me n’hai fatto scuordà. Se non facevi tanto il guappo, tu, col tuo riccio di mare, io non me ne scuordavo!
— Perduto! — soggiunse quindi, alzando le spalle, in tono sarcastico, — lo sapevo, io, che non si può perdere. Ha una chiusura sicurissima, di garanzia. — E con attenzione compiaciuta, si riagganciò al polso il suo orologio.
Dunque, la sorte aveva scherzato, la mia azione perdeva quasi ogni splendore. La delusione, montando come la febbre, mi fece tremare i muscoli del viso, e bruciare gli occhi. Pensai: «Se piango, sono disonorato», e per difendermi, con la violenza, dalla mia debolezza, mi sfilai rabbiosamente dal collo la maschera, che non era servita a nulla, e rabbiosamente la resi a mio padre.
Mio padre nel riprenderla mi gettò un’occhiata arrogante come per dire: «Ehi, ragazzino!», e io, non potendo più riguardarlo dopo questo sgarbo che gli avevo fatto, volli fuggir via. Ma allora lui prontamente, con l’aria di giocare, per frenarmi appoggiò forte il suo piede nudo sul mio piede nudo; e vidi il suo volto piegarsi su di me sorridendo con una espressione favolosa, che, per un istante, lo fece rassomigliare a una capra. Mi mise sotto gli occhi il polso con l’orologio, e duramente mi disse:
— La sai, la marca di quest’orologio? Leggila, è stampata sul quadrante.
Sul quadrante, a caratteri quasi impercettibili, c’era stampata la parola AMICUS. — È una parola latina, — spiegò mio padre, — sai che cosa vuol dire?
— Amico! — risposi, abbastanza soddisfatto della mia prontezza.
— Amico! — egli ripeté, — e quest’orologio, con questo nome, ha un significato di grande importanza. Un’importanza di vita e di morte. Indovina.
Sorrisi, figurandomi per un momento che mio padre volesse, con quel simbolo dell’orologio, proclamare la nostra amicizia: per la vita e per la morte.
— Non lo indovini! — egli esclamò, con una lieve smorfia di sprezzo, — vuoi saperlo? Sappi che quest’orologio è un regalo che m’ha fatto un amico mio, forse il più caro amico che ho: sai la frase: due corpi e un’anima? Per esempio, anni fa, una sera di Capodanno, io mi trovavo in un paese dove non conoscevo nessuno. Ero solo, avevo speso tutti i soldi, e col freddo che faceva dovetti passare la nottata sotto un ponte. Il mio amico, in quella notte, era in un’altra città, e da molto tempo non aveva mie notizie, per cui non poteva sapere né dove, né in quale condizione mi trovavo. Anzi, essendo Capodanno, s’era domandato per tutta la sera: “Chi sa, dov’è? Chi sa con chi fa festa, questa notte?” E s’era coricato presto, ma verso mezzanotte fu preso da brividi, da un gelo che non si poteva spiegare. Non aveva la febbre, era in una stanza riscaldata, a letto, con buone coperte, e per tutta la notte seguitò a tremare, senza riuscire a scaldarsi, come se fosse coricato su un terreno diaccio, senza nessun riparo.
«Un’altra volta, scherzando con lui, io per disgrazia caddi, ferendomi il ginocchio su certi vetri. E lui, da se stesso, con un pugnale algerino che gli avevo regalato io, si fece una ferita al ginocchio, nello stesso punto.
«Regalandomi l’orologio, mi ha detto: “Qua, dentro questo orologio, io ci ho rinchiuso il mio cuore. Tieni, ti do il mio cuore. Dovunque tu sia, vicino o lontano da me, il giorno che questo orologio cesserà di battere, anche il mio cuore avrà cessato di battere!”
Era un caso insolito che mio padre mi facesse un discorso così lungo e confidenziale. Il nome del suo grande amico, però, non me lo disse, e subito alla mia mente s’accese un nome: Romeo! Romeo-Boote, difatti, era il solo amico di mio padre del quale io avessi notizia; ma era morto, e quindi era di un altro che mio padre parlava oggi. Quest’altro, che nel mio pensiero prese nome Pugnale Algerino, viveva là, in quei gloriosi orienti a cui mio padre sempre ritornava; primo fra i satelliti che là, in quelle fuggenti zone australi, seguivano la luce di Wilhelm Gerace. Il favorito! Per un momento, io lo intravidi: abbandonato, in chi sa quali stanze magnifiche da tragedia, forse in mezzo ai Grandi Urali, solo, che aspettava mio padre; con un volto stregato, semitico, il ginocchio insanguinato, e un vuoto al posto del cuore.