Heaven è un museo in cui il ragazzino bullizzato, protagonista del romanzo, e la sua amica Kojima, trovano rifugio in un giorno di pace, in cui, non dovendo andare a scuola, non subiscono lo stress emotivo e fisico dei tormenti che gli vengono inflitti.
Vittime perfette, sia pure per motivi diversi, il ragazzo perché strabico, e la ragazzina perché non si lava e ha un aspetto trasandato, i due trovano, alle soglie dell’età critica e competitiva che è l’adolescenza in Giappone, l’uno nell’altra uno sfogo e un confronto.
Agli occhi del mondo dei ragazzi perfetti che li accerchiano e infliggono loro torture degne dei campi di rieducazione, sono dei falliti, indegni di far parte di qualsiasi gruppo.
Così nella stranezza che circonda i quadri del museo i due mettono a nudo le loro fragilità, il loro senso di inadeguatezza. Kojima, al contrario del protagonista non è orfana, ma ha subito l’abbandono forzoso da parte del padre, un uomo buono e gentile che, tuttavia, non è mai riuscito a guadagnare abbastanza da meritarsi il rispetto della moglie, che, all’ennesima visita dei creditori, lo ha abbandonato. L’animo sensibile di Kojima ha maturato come forma di ribellione contro il riscatto economico e il nuovo matrimonio della madre, la trasandatezza nel vestire e la poca cura nell’igiene personale. Per sentirsi più vicina al padre, sconfitto da una società fatta di apparente benessere, Kojima decide di non lavarsi, quasi che l’afrore del suo corpo, colto nel momento del passaggio dalla rassicurante rotondità dell’infanzia alla spigolosità di tredicenne, sia la corazza che le serve come un carapace per proteggersi dalla rabbia verso la madre e dal dolore per la mancanza del padre.
Un tentativo di distinguersi. Esattamente come il ragazzino strabico.
Dopo avergli mostrato la sua capacità di tagliuzzare oggetti ma senza rovinarli, Kojima indaga il complesso rapporto che esiste tra vittima e carnefice, illustrando al ragazzino ferito e sconcertato la portata del loro potere: le vittime risvegliano i carnefici che senza di loro sarebbero ridotti in briciole e lo esorta a mantenersi saldo nel suo ruolo.
Qualcosa si incrina nell’equilibrio tra loro quando lui, il nome non ci viene mai detto, decide di farsi operare e di rinunciare così alla deformità e anche, allo stesso tempo, al suo segno particolare, tentando di sfuggire al destino di vittima che gli pesa sull’anima.
Un viaggio crudele e impietoso nel profondo sonno della ragione, tra esseri ottusi o sociopatici, la cui tolleranza della crudeltà ci fa capire che non c’è nulla di innocente nell’adolescenza, che è, davvero, una terra pericolosa da attraversare, e la salvezza da questo territorio desolato non è affatto scontata.
– Credo di aver capito cosa intendevi prima – proruppe di colpo Kojima – un tavolo o un vaso, anche se sono rovinati o graffiati, continuano a stare lì in silenzio, e a essere utilizzati, come se fossero più o meno integri.
Quel tavolo e quel vaso possono essere malridotti e pieni di graffi e ammaccature in superficie, ma non sono mai feriti dentro, mentre noi, al contrario, possiamo essere feriti all’interno e non mostrare niente all’esterno. Spesso le nostre ferite sono invisibili.