Di Jesmyn Ward hanno detto che è l’erede di Toni Morrison e di Faulkner. Una vera, autentica scrittrice degli stati del Sud. Una benedizione per chi la legge. Dopo le sue opere di narrativa (e con Salvare le ossa e Canta spirito canta ha vinto due volte il National Book Award), leggo il suo memoir. La sua poetica e struggente biografia di ragazzina afroamericana in un’America che ha fame e sete di sangue, quel sangue che non ha ancora imparato a proteggere.
La vita di Jesmyn è costellata di perdite: due cari amici, il fratello, ucciso a 20 anni da un pirata della strada, un uomo bianco di 40 anni, che ha avuto una condanna lieve, un cugino bruciato vivo in un incidente dovuto all’incuria di un’amministrazione che non fa manutenzione nelle strade abitate da persone di colore, dove se ci fossero state le luci lui sarebbe ancora vivo. È anche imbarazzante scriverlo. Persone di colore. Di che colore? Persone non appartenenti all’élite che governa gli USA. Ogni perdita non fa altro che confermare a lei che le persone svantaggiate hanno meno diritto degli altri di esistere. È questo quello che la generazione di Jesmyn fa. Si imbottisce di alcool e di droga perché è il solo modo di sopravvivere alla cronica mancanza di speranza.
In quel Sud, patria di alcuni dei romanzieri più famosi d’America e del mondo, non ci sono molte possibilità per chi abbia la pelle delle sfumature di colore che vanno dalle bacche di vaniglia al caffè nero. Ogni vittoria segna il passo con il senso di disfacimento, con la generale sensazione che ogni volta che ti elevi la tua gente ti allontana e chi ti dovrebbe accogliere per i tuoi meriti ti dice in faccia che “a quelli come te li appendiamo a un albero”.
Jesmyn resta ferma, immobile e dice “Voi non mi farete niente”. Eppure. Quanto è difficile studiare in una scuola episcopale dove sei l’unica non bianca, dove in sostanza sei una straniera, una paria alla quale è stata concessa un’occasione da una borsa di studio che le ha fornito il datore di lavoro della madre. Tutti lo sanno e non ti permettono di dimenticarlo.
Nel mondo di Jesmyn la sorella resta incinta a 13 anni, perché la bellezza è uno stigma, una sorta di maledizione che marchia chi la possiede. Jesmyn si salva con caparbia dalle gravidanze precoci, dall’amore che è una trappola, decisa a leggere e a trovare nei libri le promesse non mantenute nel mondo reale.
Anche dall’abuso di alcool si salva. Adesso insegna all’Università, è una scrittrice. Ha due figli che ama e un marito. Eppure, neanche questo basta a tenerla al sicuro.
Le ultime pagine, un’appendice al libro, aggiunte all’inizio del 2020 raccontano la morte del marito per covid, prima ancora che si avessero abbastanza notizie sul covid. Un tributo di morte che le sembra di non cessare mai di pagare.
E poi, in maniera inaspettata, nel senso di mancanza, nel buco nero che la avvolge e la ottunde, rendendo sfumati i contorni tra le cose, emerge una speranza. Il senso di rabbia che travolge l’America dopo il brutale omicidio di George Floyd, il cui volto contratto, sconvolto, ha fatto il giro del mondo, rendendo impossibile da classificare come legittima difesa l’operato dei poliziotti.
Black lives matter diventa anche la personale riscossa di Jesmyn, il sentirsi parte di quell’umanità, non solo afroamericana, ma tutta, dalla quale si è sempre sentita esclusa. Il senso di estraneità sostituito dall’essere parte di una coscienza collettiva. E anche se il suo cuore è ridotto in briciole per la perdita dell’amato, è attraverso quel grido, quell’essere presente nel qui e ora che le darà un poco di luce.
Una speranza necessaria a sopravvivere. Si dice che l’ultimo senso ad abbandonarci sia l’udito, e lei spera che l’amato la senta, mentre grida “non ce ne andremo”.
Ascolto la storia di Jesmyn raccontata dalla sua voce dolente e intatta e pura e mi sale qualcosa alla gola, un senso di riverenza e di spaesamento e anche di amore. Perché è questo che sento. La mia pelle è color mela sbucciata, lattea, trasparente, eppure io non ho inflitto alcun dolore a Jesmyn e alla sua famiglia.
Non appartengo alla maggioranza che crede di essere superiore, e si comporta con l’arroganza violenta di chi crede di meritarsi il meglio. Io appartengo a quelli che marciano al fianco di Jesmyn per ottenere visibilità, perché le storie di sopraffazione rendano impossibile dimenticare, e spingano tutti a riflettere, quando non a migliorare.
Leggete questo libro, ascoltate le storie intrecciate di gioventù e malinconia, le notti blu del sud, e il vento che vi passa tra i capelli. Siete lì. Non potete respirare. Urlate. E fate in modo che vi sentano.
Era il 2003. Eravamo impazziti. All’epoca avevamo perso già due amici, ed eravamo talmente acerbi da non riuscire a coniugare la nostra gioventù con il fatto che stavamo morendo, perciò bevevamo, fumavamo, e facevamo anche altro, illudendoci che la giovinezza potesse salvarci, che da qualche parte qualcuno avrebbe avuto pietà di noi. Bevevamo shot di whiskey in macchine con la musica a tutto volume, sotto un cielo nuvoloso, asfissiato dal buio, ogni santa notte. I miei cugini si rigiravano la punta accesa dei blunt dentro la bocca, espiravano soffiando il fumo l’uno nella bocca dell’altro. È questo che significa vivere, pensavamo.