“Quel luogo a me proibito” di Elisa Ruotolo (Feltrinelli)

Ogni riga di questo libro si ribella alla trama e si trasforma in poesia

Conosco il luogo fisico ed emotivo narrato da Elisa. Io vengo dal suo stesso sud, un sud distante poche decine di chilometri da quello in cui lei è vissuta, fatto di curve che alternano tunnel di verde e di marroni bruciati. Strade senza uscita. Buchi e cortili dove quando passi anche l’aria sa chi sei e da dove arrivi. Fabio Stassi dice che non si cresce in un luogo, si cresce in una lingua, e io in quella lingua che è incomprensibile per chiunque non venga da quello stesso terreno nudo ed ex malarico, sono cresciuta e sono stata amata.

Il mondo di Elisa è il mondo, impietoso e pudico insieme, di donne che si accontentano di non essere additate, di donne che chinano il capo e sanno che la rispettabilità conta più della bellezza, del coraggio e delle aspirazioni. Tutto quello che sfugge al controllo viene censurato, come se non esistesse. Quando in tv c’è la scena di un bacio è la piccola di casa, lei, che scende obbediente e cambia canale, con giusto un attimo d’esitazione sul tasto, quanto basta per indovinare quanto sta per accadere, ma senza che il dondolio sul pulsante venga scambiato per desiderio di vedere scene proibite.

Elisa è la terza figlia all’interno di un matrimonio quieto, senza scosse, e quieta cresce anche lei, intuendo di essere stata, forse, un incidente, quel terzo figlio che a volte fa alzare gli occhi e dire, con una punta di esasperazione nella voce “è capitato”. Elisa passa il suo tempo a leggere, a divorare le parole degli altri, prima di svoltare un mondo e di trovare le sue, e nel tempo che ci mette a crescere e a nascondere il desiderio, i suoi coetanei si fanno male, cambiano, fuggono a Napoli e assaporano il vento esotico della ribellione nelle manciate di spazi e passeggiate tra Napoli Centrale e Via Caracciolo, quando il mare sbuca all’improvviso dietro una curva. Elisa si nega ogni piccola trasgressione, convinta che basti essere semplice come una riga di matita su un foglio per essere amata, mentre intorno a lei una compagna di classe fa un figlio a 14 anni, precipitando tutto il suo micromondo nell’indecente scoperta del sesso voluto e praticato.

A lei non può capitare neanche di baciare per sbaglio un ragazzo, lei è perbene, fatta di timidezze e di un corpo impreciso, abituata ad abbassare gli occhi davanti agli sguardi sfacciati, senza nessun apparente desiderio carnale.

Eppure, anche dietro il suo muro di non ostentata ma vissuta castità la vita la viene a cercare. Un uomo di nome Andrea, virile, senza freni, un uomo che è eccitato dalla sua verginità prolungata come un voto, un uomo che cerca di restituirla alla sua natura di donna. Elisa risponde a quell’ardore come può, come sa, non potendo accettare di abbandonarsi senza riserve al corpo dell’altro che esige e sfida e chiede, e alla fine, sfinito, si ritrae.

La donna bonsai che le sembra di essere sempre stata si ripiega su sé stessa, diventa vento e spuma, preoccupata di arginare un dolore terribile, dato dalla mancanza della persona amata, che un giorno ci sosteneva, e quello dopo, come per un incantesimo cattivo, ci avversa e ci punta il dito contro, le mani piene di pietre.

Sarà l’incontro con l’amica delle medie, ora una donna sfatta ma non sconfitta, ad aiutarla a riannodare i fili sparsi delle domande senza risposte, e non sarà ancora la fine.

Ogni riga di questo libro si ribella alla trama e si trasforma in poesia, descrivendo il mondo oppresso di case con i muri che trasudano umidità, gli odori pungenti di stracci unti messi ad asciugare, l’incedere sfacciato della prostituta del paese, che se ne frega della disapprovazione e finisce con il rivendicare il suo potere su tutti gli uomini che la criticano ma la seguono con occhi affamati.

Quel luogo da cui Elisa ha preso le distanze è la vita, torrida, impietosa, distratta, che a volte, quando ormai hai smesso di sperare, ti consola. Con le parole e le lacrime, nel gesto tenero di chi ti riconosce in mezzo alla folla, all’improvviso.

Chi siamo veramente, la reale misura dell’umano non sono dati dal rapporto tra pari. È il riguardo per chi è più debole a qualificarci. Il nostro essere perbene è dimostrato dallo scrupolo con cui tocchiamo chi è diverso, svantaggiato, oppure semplicemente nel bisogno. Insomma, da come sappiamo dosare la nostra forza in esubero e dal tipo di potere che esercitiamo, alla fine.

Il padre di mio padre e la madre della mia sono gli unici nonni che posso dire d’aver conosciuto, non amato. E fu reciproco, perché l’amore è altro, credo abbia a che fare coi regali dati senza il peso del sacrificio o con le febbri misurate di continuo. L’amore è un odore di cucinato pesante, è il martirio di chi ti chiede se hai mangiato e che ti invoglia, quando rifiuti. Sta tutto nelle braccia, secondo me, e quelle dei miei nonni erano rimaste a lungo inerti, come le mie prima della caduta. In entrambi i casi mi ero fatta male.

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Marilena Votta

Marilena Votta nasce a Napoli e trascorre la sua infanzia e adolescenza in un luogo fatto di sole accecante e ombre altrettanto tenaci. Ha pubblicato le raccolte di racconti Equilibri sospesi, La ragazza di miele e altre storie (Progetto Cultura, 2016) e Diastema (Ensemble, 2020), e la raccolta di poesie Estate (Progetto Cultura, 2019). Il suo racconto “Fratello maggiore fratello minore” è stato pubblicato nell’antologia “Roma-Tuscolana”. Alcuni suoi racconti sono disponibili su varie riviste on line e cartacee. Nell’ottobre 2021 pubblica il suo primo romanzo, Stati di desiderio, con D editore. Del suo rapporto con la scrittura asserisce, convinta, che è il suo posto nel mondo. Scrive recensioni di libri che ama per "Dentro la lampada", la rivista della scuola Genius.

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