L’Italia di Henrik Ibsen

Esulta quando passa le Alpi e si affaccia al mare di Trieste, mentre si diffonde su tutto il paesaggio del Golfo il candido riverbero del castello di Miramare.

Esulta quando passa le Alpi e si affaccia al mare di Trieste, mentre si diffonde su tutto il paesaggio del Golfo il candido riverbero del castello di Miramare. Henrik Ibsen nel viaggio in Italia ritrova l’unità della cultura europea che vi si riflette. Ricordando il suo entusiasmo nel giorno in cui ha varcato le Alpi, rende testimonianza di una folgorazione per la bellezza di cui sarà impregnata tutta la sua opera successiva.

Da Trieste a Roma per settimane di viaggio non lascia tracce di sé. Lo ritroviamo a Palazzo Correa, in un’osteria del Tritone, a Genzano, ad Ariccia, tra il lago di Nemi e via dei Due Macelli, e a vagabondare con lo zaino in spalla per la campagna romana, quando i briganti non gli sembrano così pericolosi come si dice, e fra le rovine della scuola di Cicerone. Lo scopriamo seduto sulle gradinate delle chiese dei Castelli romani, a godersi i giochi dei ragazzi che si riversano a frotte nelle piazze nel freschetto vespertino, o in compagnia degli artisti scandinavi, gente umile, poco influente di cui si circonda per proseguire, in solitudine, e fra stranieri, i colloqui con il suo popolo, con quello slancio che mitizza la Scandinavia. Vive con una pienezza nuova, persino quando la febbre quasi l’atterra, ma con l’immaginazione sempre rivolta alle suggestioni del mondo scandinavo. A Roma visita le gallerie con Dietrichson, storico dell’arte, e gode della quiete di un tempo sospeso e della libertà che il governo pontificio assicura, di quell’isolarsi di una città nelle memorie che evoca in mezzo ai tumulti di fine ottocento, un atteggiamento che ben si sposa con la sua naturale ritrosia. Incita gli appartenenti al circolo scandinavo ad abbonarsi all’Osservatore Romano e deplora la pace persa quando Roma si unisce al Regno, ma cita il risorgimento italiano che gli appare come esempio per tutta l’Europa e sintesi dell’ideale romantico di sacrificio offerto per le sorti della nazione. Scende un giorno d’estate da Ariccia a Roma ed entra in San Pietro, e là gli si rivela chiaramente la forma per proseguire il poema di Brand: “riacquista una perduta sapienza” nel mitigare la natura eroica del pastore luterano e il suo estremo protestantesimo nella ricerca della virtù, con la calma idillica di Roma. Dentro lo spazio armonioso della basilica, nell’equilibrata misura in cui si definisce, ritrova la parola di conciliazione fra il divino e l’umano.

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