Oltre alla forma-diario, un altro modo (trucco) per raccontarsi è scrivere una lettera a qualcuno in cui parliamo di noi. Per questo la scrittura di un diario e la scrittura di una lettera – scrittura diaristica e scrittura epistolare – vanno immaginate insieme, come due facce della stessa medaglia.
Ci sono molti tipi (generi) di lettera. Lettera formale, lettera di protesta, lettera anonima, lettera aperta, lettera d’amore (seduttiva), lettera resa dei conti ecc.
Lettera al padre di Franz Kafka è un esempio di lettera resa dei conti. Mentre Lettere a Milena raccoglie Lettere d’amore di Franz a una donna che amava, insomma, si sarà capito, Kafka era bravissimo a scrivere lettere. In realtà Kafka era bravissimo in tutto ciò che faceva. È uno dei geni assoluti del Novecento. Eppure, non era per nulla soddisfatto dei suoi libri, della sua scrittura, pensate che incaricò il suo amico e futuro biografo Max Brod di bruciare (quasi) tutti i suoi manoscritti. E se oggi possiamo leggere i suoi immortali capolavori – dalla Metamorfosi al Processo, dal Castello ad America, per non dire dei meravigliosi racconti contenuti nella raccolta Il messaggio dell’imperatore – lo dobbiamo proprio al suo amico e biografo Max Brod che non seguì le sue disposizioni testamentarie, anche se come ci racconta Kundera ne I testamenti traditi, come critico-studioso prese degli abbagli, o meglio, volle inquadrare l’opera kafkiana soltanto nell’ambito teologico-religioso.
La lettera al padre è terribile e magistrale. Leggetela, potete trovarla in varie edizioni. Severo verso il genitore, Franz intesse contro di lui una sorta di accerchiante requisitoria morale, esistenziale. Il padre vi appare colpevole di egoismo, insensibilità, incoerenza nei rapporti con lui. Ma l’accusa di Franz non è mai espressa volgarmente, ma è implacabile nell’enumerare una dopo l’altra tutte le mancanze del padre, le sue ristrettezze mentali, le sue meschinità, e incoerenze, e soprattutto le sua totale mancanza di empatia verso il figlio. Come nel lungo stralcio che riporto:
“Carissimo padre, di recente mi hai domandato perché mai sostengo di avere paura di te. Come al solito, non ho saputo risponderti niente, in parte proprio per la paura che ho di te, in parte perché questa paura si fonda su una quantità tale di dettagli che parlando non saprei coordinarli neppure passabilmente. E se anche tento di risponderti per iscritto, il mio tentativo sarà necessariamente assai incompleto, sia perché anche nello scrivere mi sono d’ostacolo la paura che ho di te e le sue conseguenze, sia perché la vastità del materiale supera di gran lunga la mia memoria e il mio intelletto.
(…) Questo fu soltanto un piccolo inizio, ma questa sensazione di nullità che spesso mi domina (sensazione da altri punti di vista anche nobile e feconda) deriva abbondantemente dalla tua influenza. Io avrei avuto bisogno di un po’ d’incoraggiamento, un po’ di gentilezza, di qualcuno che mi lasciasse un po’ aperta la mia strada: invece me la sbarrasti, sicuramente con le migliori intenzioni, quelle di farmene imboccare un’altra. Ma io non ne ero capace. Mi incoraggiavi, ad esempio, quando ero bravo a fare il saluto militare e a marciare, ma io non ero un futuro soldato; oppure mi incoraggiavi quando mangiavo d’appetito o addirittura ci bevevo su anche una birra, quando ripetevo canti dal significato a me oscuro o scimmiottavo i tuoi modi di dire preferiti, ma niente di tutto ciò rientrava nel mio futuro. Ed è significativo che ancor oggi tu mi incoraggi davvero solo quando tu stesso sei mosso a compassione, quando si tratta del tuo orgoglio, che ho ferito (ad esempio con le mie intenzioni matrimoniali) o che viene ferito in me (quando ad esempio Pepa mi insulta). Allora mi si incoraggia, mi si rammenta il mio valore, si accenna ai buoni partiti che potrei trovare, e Pepa riceve una condanna senza appello. Ma a prescindere dal fatto che alla mia età sono ormai quasi completamente insensibile agli incoraggiamenti, a che cosa dovrebbero mai servirmi, visto che sopraggiungono soltanto quando in prima istanza non si tratta di me. Allora e dappertutto avrei avuto bisogno di incoraggiamento. Già ero schiacciato dalla tua nuda fisicità. Ricordo ad esempio come, frequentemente, ci spogliavamo insieme in cabina. Io magro, debole, sottile, tu forte, alto, massiccio. Già in cabina mi sentivo miserabile, e non solo di fronte a te, ma di fronte a tutto il mondo, perché tu eri per me la misura di tutte le cose. Se però uscivamo dalla cabina davanti alla gente, e tu mi tenevi per mano, io che ero uno scheletrino insicuro, a piedi nudi sulle assi, tremebondo davanti all’acqua, incapace di ripetere i movimenti che tu, con le migliori intenzioni ma in effetti con mia profonda vergogna, eseguivi nuotando, allora ero disperatissimo, e tutte le mie esperienze negative in tutti i campi in quegli istanti concordavano in modo grandioso. Meglio era quando tu, qualche volta, ti spogliavi per primo e io potevo rimanere da solo in cabina e rimandare la vergogna dell’uscita in pubblico finché tu alla fine non venivi a controllare e mi spingevi fuori dalla cabina. Ti ero grato del fatto che sembravi non notare la mia pena; inoltre ero orgoglioso del fisico di mio padre. Del resto questa differenza tra noi sussiste ancor oggi. A ciò corrispondeva anche la tua superiorità spirituale. Ti eri fatto strada unicamente con le tue forze e avevi quindi una fiducia illimitata nelle tue opinioni. Per me bambino questo fatto non fu così accecante come in seguito, quando fui adolescente. Dalla tua sedia a dondolo governavi il mondo. La tua opinione era giusta, tutte le altre erano folli, esagerate, pazze, anormali. E la tua fiducia in te stesso era tale che non avevi neppure bisogno di essere coerente, senza per questo smettere di avere ragione. Poteva anche accadere che tu su un certo argomento non avessi alcuna opinione, e quindi tutte le opinioni possibili in proposito dovevano essere sbagliate, senza eccezione. Potevi ad esempio insultare i Cechi, poi i Tedeschi, poi gli Ebrei, e non a un certo riguardo, ma sotto ogni punto di vista, e infine non rimaneva nessun altro a parte te. Tu eri avvolto per me dall’enigma di tutti i tiranni, il cui diritto è fondato sulla loro persona e non sul pensiero. Almeno così mi sembrava… (…)”
La forma epistolare, la lettera, ti permette di dire tante cose che a voce non diresti mai; ti dà il vantaggio di essere tu a muovere i fili dell’immaginaria conversazione, mentre lui/lei, l’interlocutore, insomma, il destinatario, può soltanto leggerti, cioè subire la tua azione (qualunque essa sia), senza potersi sottrarre ad essa.
Io ho scritto tante lettere a mio padre, soprattutto negli anni dell’adolescenza, quando lo scontro con lui era più aspro e duro, lettere in cui lo accusavo di non amarmi, di non avermi mai capito, ecc. Gliele mandavo, quelle lettere, quando lui era via da casa, in missione per lavoro da qualche parte. Oppure gliele infilavo nella borsa o nelle tasche della giacca prima che partisse. Lui mi rispondeva rassicurandomi che mi voleva bene e compagnia bella, e qualche volta si complimentava per la forma con cui erano scritte, ma sostanzialmente non cambiò per via di quelle lettere.
Esercizio. Provate a scrivere anche voi una lettera-requisitoria-resa dei conti a qualcuno (un genitore, un amico, un collega di lavoro…) che vi ha fatto soffrire… Poi decidete voi se mandargliela, o tenervela nel cassetto. Alla prossima.