“In un piccolo cielo” di Paul Yoon (Bollati Boringhieri)

Essere profughi è una condizione dell'anima, un senso di straniamento che ti accompagna sempre

Una storia di diaspora, un pezzo di guerra dimenticata dal mondo, quella in Laos, un paese al confine tra Vietnam e Thailandia, dove gli USA, nel tentativo di reprimere ogni forma di rinascita del partito comunista, sganciarono un numero impressionante di bombe. Per aiutare il Governo Reale del Laos  (RLG), contro il movimento comunista dei Pathet Lao, gli Stati Uniti inflissero alla popolazione civile inerme una serie di attacchi aeri che non ha eguali nella storia militare del secolo passato. I bombardamenti durarono 9 anni, dal 1964 al 1973, e si calcola che ogni 8 minuti sia stata sganciata una bomba.

Nel 1969 tre ragazzi adolescenti tra i 15 e i 17 anni, Alisak, Prany e la sorella Noi (un soprannome che significa piccola, ma noi la conosceremo solo con questo nome), aiutati dal dottor Vang, cercano di sopravvivere allo sfacelo, alla perdita dei genitori e delle sicurezze, e di scampare alle devastanti mine inesplose che mietono vittime ovunque. I ragazzi imparano a guidare la moto, unico mezzo di locomozione, e si rifugiano in una casa abbandonata che funge da improvvisato ospedale da campo per le vittime dei bombardamenti.

Quando il dottor Vang riesce a trovargli un posto sull’aereo che sta evacuando la popolazione, il cerchio tra i tre si spezza. Solo Alysak riesce a salire su quell’aereo e ad arrivare in Francia, stordito e con il senso di colpa dei sopravvissuti. Per molto tempo Alysak fornirà solo poche notizie su se stesso e i suoi amici, sentendosi straniero ovunque.

Per capire cosa sia successo a Prany e a Noi, dobbiamo immergerci nella narrazione scandita dagli anni, dove le storie dei protagonisti si mescolano, come succede coi fili dei gomitoli colorati, a quelle di altre persone che, vive o morte, continuano a far sentire il peso del loro legame con i superstiti.

Troviamo Prany e il dottor Vang che hanno passato 7 anni da incubo in un centro di rieducazione gestito dai Pathet Lao, e la loro liberazione coincide con la vendetta verso chi li ha torturati e, al contempo, un senso di rassegnazione profondo. Sono entrambi esausti, prosciugati di linfa vitale.

Sarà la piccola Khit, la figlia di una donna con le gambe dilaniate da una bomba, che alla fine ci permetterà di scoprire le trame nascoste dietro gli eventi.

Prany la incontrerà nel breve intervallo tra la fine della prigionia e la nuova fuga dai Pathet, e la aiuterà a mettersi in salvo in Thailandia.

Essere profughi è una condizione dell’anima, un senso di straniamento che ti accompagna sempre, come l’ombra di tutte le possibili vite che avresti potuto vivere e non hai vissuto.

Khit, per adempiere alla promessa fatta a Prany di trovare Alisak, si spingerà fino in Francia, molti anni dopo, da adulta, e metterà a nudo il suo cuore di donna orientale non abituata alle confidenze, con la donna che ha aiutato Alisak, Marta. A lei, Khit confesserà di non essere riuscita a salvare il suo matrimonio, c’erano troppe cose non dette tra lei e il marito, e nemmeno la giovane età e un figlio sono state capaci di scuoterla da una sorta di torpore dei sentimenti. Così quando lui è andato via Khit non ha fatto niente per fermarlo, conscia che le persone che amiamo ci scivolano dalle dita come pesciolini minuscoli e che l’amore può esprimersi in uno sguardo, unico e potente, come quello che si sono scambiati Alisak e Noi.

Non c’è molto da dire. Vivi eventi spaventosi in giovane età che ti segnano come tatuaggi che luccicano al sole, e quello che sei è il frutto delle cose e delle persone che ti sei lasciato dietro.

Il fragore delle bombe, i paletti colorati sul terreno come segnali di avvertimento per sfuggire alle mine, l’odore dolce delle pere cadute e poi raccolte da Prany, la capacità di Noi di essere sempre attenta ad ogni mutamento d’umore degli altri. La sua abilità con la moto. Una ragazza che guida meglio dei maschi. Il gioco che facevano Alisak e Noi quando vedevano passare qualcuno. Indovina chi è, se è sposato, se ha un’amante, dove va. Il loro bisbiglio lieve, nella sera, a tratti, immobile.

Aveva sterzato troppo in fretta, stava andando troppo veloce, ancora concentrata su Alisak e Vang, quando sentì le ruote passare su una cunetta. Stava cercando Alisak. I suoi occhi lo stavano cercando, freneticamente. Un’ancora. Quando lo trovò, girato verso di lei, puntò gli occhi su di lui, sul suo viso che aveva un’espressione difficile da decifrare ma in quel momento le sembrava il dono più grande, qualcosa di meraviglioso e antico, come se, per una specie di promessa misteriosa, avessero avuto l’opportunità di invecchiare tutti insieme.

Tre bambini che respingono il sonno per cogliere gli ultimi istanti di una piccola pozza di fuoco.

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Marilena Votta

Marilena Votta nasce a Napoli e trascorre la sua infanzia e adolescenza in un luogo fatto di sole accecante e ombre altrettanto tenaci. Ha pubblicato le raccolte di racconti Equilibri sospesi, La ragazza di miele e altre storie (Progetto Cultura, 2016) e Diastema (Ensemble, 2020), e la raccolta di poesie Estate (Progetto Cultura, 2019). Il suo racconto “Fratello maggiore fratello minore” è stato pubblicato nell’antologia “Roma-Tuscolana”. Alcuni suoi racconti sono disponibili su varie riviste on line e cartacee. Nell’ottobre 2021 pubblica il suo primo romanzo, Stati di desiderio, con D editore. Del suo rapporto con la scrittura asserisce, convinta, che è il suo posto nel mondo. Scrive recensioni di libri che ama per "Dentro la lampada", la rivista della scuola Genius.

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