“Giovanissimi” di Alessio Forgione (NN editore)

Ragazzi impastati di buio e luce, vitali e crudeli, sullo sfondo del tempo che accorcia

Giovanissimi in napoletano si dice criatur, ed è un vocabolo che evoca la fragilità dell’infanzia e della prima adolescenza, il momento in cui ti scontri con i desideri e le aspettative tue e di chi ti ama o dovrebbe amarti, e la paura,per la prima volta consapevole, di fallire.

Marco Pane, detto Marocco, per la sua pelle scura, vive a Soccavo, una periferia di Napoli dove non c’è un teatro, un centro di aggregazione giovanile se non una squadra di calcio, e dove il calcio rappresenta per qualcuno la possibilità di una vita migliore. Marocco ha 14 anni e frequenta in maniera svogliata e poi sempre più indolente e disinteressata, il primo liceo scientifico, una scuola non scelta ma imposta dal padre, che vede nella scuola la vera possibilità di un riscatto sociale. Il padre prova ad amare il figlio nel modo che sa e che può, in una compagine familiare asfittica, che vede il loro rapporto stratificato di cose non dette, e di ferite evidenti come cicactrici su pelle esposta e nuda.

La mamma è andata via, ad inseguire altri amori, quando Marco aveva nove anni, e non ha più dato molte notizie di sé, tanto che quando lui si sente apostrofato come “nu figl e zoccola”, pensa che, forse, gli altri sanno di sua madre, o forse è solo uno dei tanti insulti rivolti tanto per fare, magari senza una reale intenzione di offendere.

La ferita dell’abbandono plasma l’imprinting del mondo di Marocco, il suo modo di stare in mezzo ai suoi amici e compagni di squadra, in una periferia che mostra i suoi confini come una sfida, dove cresce il desiderio di un motorino, di soldi e di possibilità di fuga, una cosa che vogliono tutti i ragazzini. Conosciamo Soccavo, che somiglia a tutte le periferie di ogni sud, gente che convidide attese di autobus e pelle che si tocca, urla di bambini, cesti calati dal balcone, senza nessuna immagine che non sia la potenza stessa del mondo creato dall’autore.

Le strade percorse da Marocco, e dai suoi amici, Lunno, Gioiello, Fusco e Petrone sono le strade che ogni persona che abbia sfiorato certe zone di  Napoli conosce bene, un senso di impotenza che ti prende alla gola, l’orizzonte fatto di palazzi a perdita d’occhio, interrotto da pini che ondeggiano sottili al vento. Il mare vicino ma che bisogna raggiungere con un mezzo, il mare come un obiettivo per riempire i giorni di festa, quelli dove non ci sono gli allenamenti.

Il tempo di Marocco, che fluisce insieme agli avvenimenti, trova bellezza e inquietudine quando incontra Serena, alla quale si accosta con cautela, come se il suo corpo, prima ancora della sua mente, sentisse di non meritarsi amore, e memore che l’amore ti espone al dolore della perdita.

I suoi 14 anni però lo salvano dall’amarezza, e gli permettono di ridere e di raccontare a Serena che da grande “farò l’indagatore dell’incubo”, di imparare a baciare con tutto l’imbarazzo delle prime volte, dove ogni saliva mischiata ha il sapore di una storia da rivivere nel buio a letto. Essere giovanissimi, criatur, è questo: le possibilità schiuse davanti a te sono nastri di luce che sanno di cose buone, di sfogliatelle e pizza calda, il sudore che fa risplendere i corpi.

Non è un mondo idilliaco, ma un mondo reale, fatto di carne e sangue dove quello che succede è la vita vera, l’amore, l’abbandono, la perdita, il fallimento sportivo che prelude a perdite più grandi.

Sono così questi ragazzi impastati di buio e luce, vitali e crudeli, sullo sfondo del tempo che accorcia, impercettibilmente, le loro possibilità e li rende adulti di colpo, all’improvviso, come accade ad ognuno che sia passato per la terra bianca della giovinezza e abbia sentito l’intensità di esistere, di essere nel mondo in quel momento.

Aspettavo il pullman per andare a scuola quando vidi Maria Rosaria attraversare la strada.

Mio padre mi svegliava alle sei e quarantacinque e fuori dal letto faceva freddo e c’era l’odore del caffè e l’acqua del bagno, per quanto fosse calda, non lo era mai abbastanza. Facevo colazione, scendevo e mi mettevo sotto la pensilina della fermata, ad aspettare, e a volte mi sembrava di poter dormire anche in piedi. Altre, mi passava tutto il sonno, di colpo, perché Maria Rosaria pure prendeva il mio stesso pullman e la vedevo arrivare. Andava alla Ragioneria a Mergellina e aveva le zizze belle e grandi e un brillantino alla narice destra. Metteva anche lo smalto, sempre rosso, non cambiava mai colore.

Arrivò alla fermata. La guardai e le scarpe da ginnastica erano bagnate, perché pioveva.

«Come va?» le chiesi.

«Tutto ok» mi rispose.

Poi, con naturalezza, come se niente fosse, gli occhi mi scesero tra le bretelle del suo zaino e mi spaventò l’idea che potesse accorgersene. Mi voltai, non resistetti e mi girai di nuovo e una goccia di pioggia era ferma tra i suoi capelli.

Volevo dirglielo, magari toglierla, ma non feci nulla.

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Marilena Votta

Marilena Votta nasce a Napoli e trascorre la sua infanzia e adolescenza in un luogo fatto di sole accecante e ombre altrettanto tenaci. Ha pubblicato le raccolte di racconti Equilibri sospesi, La ragazza di miele e altre storie (Progetto Cultura, 2016) e Diastema (Ensemble, 2020), e la raccolta di poesie Estate (Progetto Cultura, 2019). Il suo racconto “Fratello maggiore fratello minore” è stato pubblicato nell’antologia “Roma-Tuscolana”. Alcuni suoi racconti sono disponibili su varie riviste on line e cartacee. Nell’ottobre 2021 pubblica il suo primo romanzo, Stati di desiderio, con D editore. Del suo rapporto con la scrittura asserisce, convinta, che è il suo posto nel mondo. Scrive recensioni di libri che ama per "Dentro la lampada", la rivista della scuola Genius.

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