Le segrete stanze

Il suono delle lame che s’incrociavano si univa al soffio del vento

Graziano si aspettava qualcosa di più antico, invece si ritrovò in un salotto che somigliava all’anticamera di uno studio medico con due divani di velluto azzurro e un televisore. All’esterno il palazzo era proprio come te l’immaginavi: la dimora di un principe romano, molto diverso da quello delle favole. Prima di entrare Graziano aveva atteso qualche momento davanti al muro di mattoni rossi, osservando i rilievi a forma di drago, la meridiana, una loggia che un tempo aveva accolto una statua, poi aveva bussato.

Nel salottino con i divani azzurri la sua borsa con gli strumenti era un oggetto fuori luogo. Pensò alle ciocche di capelli che avrebbero ricoperto il parquet e sperò che ci fosse una buona scopa per ripulire la stanza.

Entrò un prete di una quarantina d’anni, liscio come un manager.

– Lei è il barbiere?

Graziano annuì.

L’altro era liscio di capelli, liscio l’abito, liscia la pelle, liscio lo sguardo, se uno sguardo può essere liscio. Liscio o viscido, il barbiere si chiese quale fosse la parola più adatta.

– È già stato pagato, giusto?

– Sì.

Il liscio, o viscido, fece un cenno del capo. Un manager appunto.

– Sa perché ha chiesto proprio di lei?

Graziano non lo sapeva, ma era tanto tempo che aspettava.

Tanto tempo, Juan.

Avrebbe potuto chiamarlo Juan? Forse no, adesso era diventato così importante, Juan de la Luz. Don era troppo poco e monsignore era troppo pomposo. Eminenza forse, santità no, Juan non era stato per niente un santo.

– In ogni caso i capelli vanno tagliati e lui non può più andare a zonzo per Roma.

Salirono una scala stretta e si ritrovarono in un terrazzo con il pavimento ricoperto di mattoni di cotto. Oltre un muretto, sotto il cielo appena nuvoloso, si scorgeva il panorama della città. Su una sdraio di legno e tela c’era il corpo magro di Juan de la Luz. I capelli lunghi si sollevavano biancastri all’aria, la barba disordinata gli appesantiva il volto intorno alla bocca, spalancata a prendere fiato.

Quanto tempo, Juan, quanto tempo. E i tuoi capelli, i tuoi bei capelli.

Quando erano ragazzi all’oratorio di San Giuseppe Cafasso, tutti guardavano i capelli di don Juan, biondi sulla toga nera: l’uomo più elegante apparso in quella periferia. Ora indossava una canottiera bianca che gli scopriva le ascelle e qualche macchia dell’età gli adornava la pelle.

– Graziano.

Se il vecchio lo chiamava Graziano allora il ragazzo poteva chiamarlo Juan.

– Juan.

Il prete fece un cenno con la mano e il liscio si ritirò. Rimasero solo loro due in cima a quel palazzo romano, un vento lieve muoveva appena l’orlo di un asciugamano appoggiato su un tavolino di legno scuro. C’era una bacinella con l’acqua e un rasoio con le guancette del manico in legno accanto a una bomboletta di schiuma da barba. C’erano anche un paio di forbici a punte dritte e un paio per sfoltire. Graziano pensò che avrebbe comunque usato gli strumenti che aveva portato con la sua borsetta. Sarebbe stato più sicuro, per quello che voleva fare.

– Mi hanno detto che hai un bel negozio a Corso Vittorio. Dicono che sei rinomato.

Graziano aprì la sua borsa e afferrò le forbici a punte dritte, le aprì e le richiuse più volte.

Rinomato. Una bella nomina era quella che mi avevi dato tu, Juan. Il ragazzo del prete, mi chiamavano. Oppure, peggio, molto peggio, la fidanzata del prete.

– Sono sposato adesso.

Juan de la Luz annuì e poi si allungò sulla sdraio, offrendo la testa a Graziano che aveva preso un asciugamano di lino bianco per annodarlo dietro la nuca. A vederlo così disteso, il corpo conservava la sua forza, le braccia nude erano snelle e muscolose, soprattutto erano belli i piedi che spuntavano da un paio di pantaloni écru.

La vita da prete ti ha conservato bene, pensò Graziano e immerse le mani nella bacinella.

Graziano sentiva sotto i capelli la forma del cranio di Juan, infilò le dita tra le ciocche chiare per districarle. Il primo compito di un barbiere è usare bene le mani, accarezzare, sciogliere, sbrogliare i piccoli nodi, dalle punte alle radici, prima ancora di usare il pettine o la spazzola.

– Ma come ti è venuto in mente di mettere la tua testa sotto le mie forbici?

Juan sospirò e Graziano cominciò a tagliare. Il suono delle lame che s’incrociavano si univa al soffio del vento. Tagliava con grande cura, tranciando a ogni scatto una piccola quantità di pelo che cadeva sul pavimento. Non aveva fretta. Quando si lavora su una testa non bisogna avere fretta.

– Voglio sapere, disse Juan.

– Cosa vuoi sapere? Se mi hai rovinato la vita?

Graziano ricordò i pomeriggi estivi, quando restava da solo con il prete che gli leggeva i libri nella sua camera in parrocchia. E lo accarezzava sul capo. Quanto gli piaceva sentire le dita che s’intrecciavano tra le ciocche corte. E quanto gli piaceva sentire tra le sue mani i riccioli biondi di Juan. La mia pelle riconosce i tuoi capelli, diceva il prete. E i miei polpastrelli sentono i tuoi, diceva Graziano. Juan ogni tanto gli sussurrava che quella camera era come una delle segrete stanze del Vaticano, quelle dove viveva il Papa. Quelle che nessuno vedeva mai. Quelle che celavano i misteri più profondi. Quelle dove l’amore di Dio era più forte. Ma non c’è nessuna stanza abbastanza segreta a Roma. Graziano lo sapeva da quando un giorno la porta della camera si era spalancata ed era apparso il parroco con la bocca aperta. Allora è vero, disse l’uomo. Ti avevo avvertito Juan, disse.

– Voglio sapere se mi hai perdonato, disse il prete.

Graziano interruppe il taglio e afferrò la mascella del vecchio. Con una mano strinse le ossa che spuntavano sotto la pelle, poi salì sulla guancia, carezzandola. Con l’altra fece fare uno scatto alle forbici. Guardò il sacerdote: ormai bianchi i capelli, bianca la pelle.

Il prete era stato allontanato e la colpa era ricaduta sul ragazzo. Volevamo bene a Juan, dicevano tutti, e per colpa tua ce l’hanno tolto. Non potevi tenere a freno le mani, finocchietto, e magari la bocca. Parole pronunciate con le labbra storte, soprattutto da certe beghine che si erano scaldate l’anima e il cuore alle prediche di Juan. Bello come un Gesù spagnolo, dicevano. Guarda invece che rospo gli si è infilato nella stanza e si è fatto scoprire.

– No, non ti ho perdonato, disse Graziano.

Lasciò il viso e riprese a tagliare. Sentiva crescere la vecchia rabbia. Il colpo di forbici che assestò subito dopo fu meno fermo, la punta della lama sfiorò il cuoio capelluto e il prete fece un sobbalzo. Non ci fu nessuna macchia di sangue, comunque. La mano si era fermata in tempo.

– Per te è stato semplice, te ne sei andato, disse il barbiere e riprese a lavorare lemme lemme. Intanto pensava che per molti anni aveva avuto nelle orecchie gli insulti e negli occhi le facce dei suoi parrocchiani, tutti innamorati di Juan, tutti che odiavano lui. Prese il rasoio e l’aprì, adesso toccava alla barba. Radere è un’attività pericolosa, anche quando la fai su te stesso, figuriamoci fatta su un uomo che non hai perdonato. Cominciò a insaponare il volto scarno.

È una strana prospettiva quella del barbiere, guardi tutti dall’alto e soprattutto guardi i nasi, quello di Juan si sollevò e Graziano vide gli occhi socchiusi e la bocca aperta.

– Non mi perdoni per quello che ti ho fatto?

– No. Non ti perdono per quello che non mi hai fatto.

Una schiuma soffice e bianca aveva ricoperto il volto del prete. Graziano appoggiò il rasoio alla base del collo, sulla destra appena sotto l’orecchio, sentì il viso dell’uomo tremare e un nuovo sospiro, stavolta più forte. Mosse la mano con rapidità, sicuro, la pelle rasata apparve lievemente più chiara del resto.

– Non sei tornato. Non mi hai aiutato, Juan. Non mi hai voluto bene.

Il rasoio venne spostato dall’altra parte del viso, sotto l’orecchio sinistro.

– La tua veste, la decenza, la fede, la carriera, tutto è venuto prima di me. Cosa sei diventato, un monsignore?

Il rasoio passò sotto la gola.

– Dimmelo. Valeva la pena diventare un monsignore e rovinare tutto?

Hai rovinato la fidanzata del prete, pensò Graziano con rabbia, e poi pensò che Juan aveva rovinato anche i giorni dolci passati insieme e il fuoco che li aveva accesi. Poveretto. Per Graziano invece erano ancora intatti.

– Io non ti ho dimenticato mai.

– Taci. Non ho finito.

Graziano voleva dire: non ho finito di raderti, ma anche che non aveva finito di parlare però si accorse che gli venivano in mente troppe parole, così tante che s’intasavano nella sua testa, alzò il rasoio nel cielo limpido, poi si costrinse a restare calmo e finì con cura il suo lavoro.

Juan lo guardava con gli occhi stretti contro luce.

– Graziano, perdonami.

– Sei tu il prete, perdonati da solo.

Il barbiere recuperò i suoi strumenti in silenzio, sciolse l’asciugamano dal collo di Juan, lo guardò un’ultima volta e si girò per andare via. Sulla porticina che lo aveva portato al terrazzo c’era il liscio. Aveva atteso sulla soglia e li aveva spiati. Non era più tanto liscio adesso, era spettinato come se avesse tenuto per tutto il tempo le mani tra i capelli.

– È finita?

Certe cose non finiscono. Si arruffano, si aggrovigliano, si intrecciano, diventano nodi inestricabili per qualsiasi pettine e alla fine si può solo tagliare.


***


Questo racconto è stato pubblicato per la prima volta nell’antologia Romani per sempre, a cura di Marco Proietti Mancini (Edizioni della sera, 2015), che ringraziamo.

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Paolo Restuccia

Scrittore e regista. Cura la regia della trasmissione Il Ruggito del Coniglio su Rai Radio2. Ha pubblicato i romanzi La strategia del tango (Gaffi), Io sono Kurt (Fazi), Il colore del tuo sangue (Arkadia) e Il sorriso di chi ha vinto (Arkadia). Ha insegnato nel corso di Scrittura Generale dell’università La Sapienza Università di Roma e insegna Scrittura e Radio all’Università Pontificia Salesiana. È stato co-fondatore e direttore della rivista Omero. Ha tradotto i manuali Story e Dialoghi di Robert McKee e Guida di Snoopy alla vita dello scrittore di C. Barnaby, M. Schulz.

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