Quando finisce una guerra i sopravvissuti fingono di aver dimenticato. Cambiano prospettiva, lingua, vita e paese. Almeno alcuni di loro rivendicano la libertà di avere un nome che non possa essere ricollegato all’orrore, alle perdite, alle domande inevitabili. È un rischio che si corre poco però, perché spesso chi della guerra non ha saputo abbastanza non è interessato a fare domande. Sull’onda del desiderio di una nuova vita, lontana dalla Bosnia, Sara si è costruita un equilibrio fragile e apparentemente perfetto: traduce dal serbo, vive con Michael a Dublino, preoccupata di comprare le tende nuove che riparino i loro sguardi dal vicino di casa nudista. Piccole cose che hanno senso solo per chi le vive. È in questo momento di calma che riceve una telefonata dalla sua amica Lejla, una voce che non sentiva da 12 anni, che le comunica di essere a Mostar, e che devono andare insieme a Vienna a ritrovare il fratello di Lejla, Armin, scomparso a 16 anni, nella guerra serbo bosniaca, e di cui non si sono avute più notizie.
Sara tenta di proteggersi da quella voce più potente del canto di tutte le sirene, obiettando che adesso sta bene, ha dei doveri. Eppure. Spende una cifra assurda, compra un biglietto aereo e parte senza dare neanche particolari spiegazioni al fidanzato, che, del resto, con una riservatezza nordica, non approfondisce molto i motivi del viaggio di Sara.
Sara parte alla ricerca di Lejla e poi, insieme a lei, di Armin, verso Vienna, facendo anche una breve tappa a Banja Luka, il posto in cui entrambe sono cresciute e dove la loro amicizia si è sviluppata, e le ha fatte diventare quello che sono.
La voce narrante di Sara alterna il viaggio nel presente, con questa nuova Lejla, che si è tinta i capelli neri di un un bianco avorio, accecante, e continua ad essere la leader del loro microcosmo, al ricordo del passato, nel momento in cui la guerra, ha cambiato tutto, incrinando il mondo perfetto abitato da due bambine sull’orlo dell’adolescenza.
L’etnia di Sara, serba pura, l’ha tenuta al sicuro dai soprusi, dalle battute, mentre l’identità bosniaco musulmana di Leila ha spinto la madre a cambiarle il nome, così Lejla è diventata Lela Beric, e ha dovuto imparare il catechismo e trovare un’altra versione di sé. Perché un nome non è mai solo un nome, ma, spesso, diventa il nostro posto nel mondo, e mentre per Sara, le privazioni della guerra come la scarsità di dolci o il razionamento dell’elettricità, sono sopportabili, Lejla, o Lela, viene fatta oggetto di scherzi crudeli, e capisce presto che le loro vite di amichette non possono proseguire intatte.
Armin, in un momento di dolcezza, aveva sciolto i capelli di Sara, quando lui aveva 16 anni e lei 12, e le aveva sussurrato che sembrava Venere. Poco dopo era scomparso, inghiottito dal bisogno di sfuggire alla guerra, e dall’indifferenza che può generare in una cittadina serba un ragazzo bosniaco. L’amicizia potente di Sara e Leila continua, fatta di segreti e di grandi rivelazioni sui cambiamenti del corpo e della mente che avvengono a quell’età in cui ogni giorno è una scoperta: il primo ciclo, il primo contatto sfacciato con i baci e il sesso, le confidenze che creano legami.
Nel viaggio attraverso il tempo e lo spazio, dal 1994 ad oggi, e da Mostar a Vienna, passando per Bania Luka, noi diventiamo l’odore dei capelli di Lejla, il suo dito con una minuscola goccia di sangue, il fiume che spande attorno sentori di “primavera rafferma” che si riversa nell’estate. Diventiamo i racconti diversi che ognuna delle due fa degli eventi che hanno sconvolto l’Europa alla fine del XX secolo, siamo occhi e orecchie che imparano a distinguere, come animaletti, i suoni di cui avere paura e di cui fidarsi.
“Che ci fai al mercato a quest’ora?”, domandai, cercando di arrampicarmi su, verso di te.
“Vado a comprare” dicesti, “un coniglio bianco”.
Tu in piedi sopra di me, dura e sicura, come una croce, circondata di terra battuta e preservativi usati, dai quali era ormai svanito il profumo di fragola, sul tuo viso qualcosa di estraneo, qualcosa che non conoscevo fino ad allora. Ricordo ciò che pensai in quel momento: io, imbranata e piccola, con una scarpa sola. Pensai con timore che sarei rimasta per sempre dietro di te prima di raggiungere quella conoscenza adulta, intangibile, mentre tu andavi lontana. Pensai che non c’eri più tu, che mentre non guardavo qualcuno ti aveva gonfiata di elio e mi eri sfuggita di mano come un palloncino in mezzo al cielo.
L’ambiguità e la ferocia potente del legame tra le due ragazze ci scuote, ricordandoci che chi ci ha visto bambino porta con sé una parte segreta della nostra storia, che spesso non si può rivelare se non scrivendone.
“Adesso non siamo più in Bosnia”.
“Siamo sempre in Bosnia”.