Sapete che cos’è la regressione culturale in un romanzo? Se voi siete dei borghesi, e volete scrivere la storia di un borgataro o di un proletario o di un contadino, e magari usare anche il suo dialetto, ecco, in quel caso potete operare una cosiddetta regressione culturale. Lo stesso che faceva Verga per entrare nella testa (e nella lingua) dei suoi pescatori e dei suoi contadini. O anche Pasolini nei suoi romanzi romani per immergersi nella sua Roma borgatara del Riccetto, o di Agnolo, o der Caciotta e degli altri suoi “ragazzi di vita”. Un procedimento che ho seguito anch’io nel Branco con Renato, Pallesecche, il sor Quinto, ecc., e in altri racconti in cui dovevo rappresentare sottoproletari o operai. L’artificio della regressione è una tecnica narrativa usata dai veristi, ma anche dai naturalisti… Il narratore si riduce allo stesso livello dei personaggi che descrive, dimenticando tutto il suo bagaglio, la sua provenienza sociale, venendo meno a tutte le terminologie colte che conosce e usa, e sposando in toto la cultura, le credenze religiose, la lingua della comunità che vuole rappresentare. A questo punto bisogna porsi il problema del dialetto, se usarlo, quanto e come usarlo, se usarlo soltanto nei dialoghi o anche nel discorso libero indiretto. Si può scegliere, per esempio, di usarlo sempre nei dialoghi e di mettere un pizzico di dialetto anche nel discorso libero indiretto, come fa Camilleri con il suo siciliano, e anche Pasolini in qualche caso nei suoi romanzi romani. Provate a farla anche voi una qualche regressione raccontando di un ambiente umile, popolare.
“Caledonian Road” di Andrew O’Hagan – traduzione di Marco Drago (Bompiani)
Una storia senza innocenti o vincitori, ma solo persone ferite che riescono a farcela con quello che resta dopo un evento drammatico destinato a essere uno spartiacque nelle loro vite.