Storia di un documento burocratico che voleva essere una lettera d’amore

Come si sente un documento che contiene i nomi degli uomini, donne e bambini ebrei che durante la guerra furono salvati dal proprietario di una fabbrica?

Sono un documento burocratico. Un freddo, insulso, noioso documento burocratico. Alla nascita ero un bel foglio beige, di carta piuttosto grezza ma dal colore elegante, ed ero pieno di entusiasmo. Speravo di servire a qualcosa di bello, ma finii presto in un plico di fogli tutti uguali a me. Loro stavano addormentati in ordine sulla scrivania, io fremente, con un angoletto sempre esposto per farmi prendere. Finché un giorno venne il mio momento, però, ohimè, fui messo in una fredda macchina da scrivere.

Le lettere di piombo cominciarono a colpirmi. Facevano male, e non era solo un dolore fisico, era più dentro, nelle fibre di cellulosa che intessevano la mia anima: avrei preferito essere inciso da una penna stilografica, persino una matita sarebbe stata meglio di quel battere furioso e asettico. Avrei voluto sentire il calore della pelle mentre strusciava sulla mia superficie, volevo essere solcato da una grafia sincera e creativa, le cui parole nascevano dalle emozioni. Volevo che scrivessero lentamente, che tra un vocabolo e l’altro ci fossero pause di sospiri, che all’inchiostro si mescolassero le lacrime. Volevo finire in una busta profumata, in compagnia di un ricciolo reciso o di un fiore. Avrei viaggiato e anche il tempo tra il mittente e il destinatario avrebbe avvalorato le mie righe; sarei stato aperto da mani tremanti, avrei visto gli occhi di chi mi leggeva cambiare colore. Volevo insomma essere una lettera d’amore.

I tasti mi battevano, riempivano le righe di parole e numeri, e io, strizzato nel rullo, potevo solo srotolarmi obbediente. Intanto sognavo di essere una velina come certi bigliettini adatti alle parole segrete, nascosti nelle pieghe dei vestiti o dentro una scollatura. I sogni vennero interrotti dal trillo dell’accapo e quando venne messo il punto all’ultima riga, mi estrassero dalla macchina. Non venni siglato da labbra morbide e ardenti, ma dall’impronta di un timbro che mi colpì duro.

Rimasi su una scrivania, illuminato da una luce cruda, con il fumo di sigaretta che mi impregnava; intorno a me voci sommesse e rumore di macchinari sullo sfondo. Poi il mondo cominciò a precipitare, si udivano urla, bagliori accecanti, fuoco; la paura di estinguermi bruciato mi divorava, ma fui salvato innumerevoli volte, custodito in una tasca, dispiegato e brandito dalla mano tremante di un uomo che mi leggeva forte. Quando tutto finì e il mondo tornò in ordine, siccome non ero altro che uno sciocco documento burocratico, fui riposto in un faldone, chiuso a chiave in un armadio, e dimenticato.

Gli anni passarono lenti; il buio e la tristezza scurirono la mia superficie. Ricevetti la visita di un topo che mi rosicchiò un angolo, ma a me non importava niente, mi divorasse pure, sì, che sparissi per sempre nello stomaco di un sorcio. Poi mi abbandonò anche lui; nemmeno al suo palato ero servito.

Restai in un letargo polveroso fino a quando qualcuno non scoprì l’armadio e mi fece tornare alla luce. Mi trasportarono con il faldone su un tavolo e sentii il tepore delle dita scavare tra le carte fino a trovarmi. Mi presero con infinita cautela e quello che avevo sempre sognato si avverò: vidi gli occhi di chi mi leggeva cambiare colore, perché si riempirono di lacrime.

Da quel momento divenni una star: fui ripulito con cura e addirittura messo in una teca di vetro, dove mi trovo ora. In questo posto passano moltissime persone, osservano le vetrine come la mia, ma davanti a me si fermano di più. Mi hanno messo accanto una didascalia, così ho capito a cosa sono servito: i dati che contengo corrispondono ai nomi e alle età di uomini, donne e bambini ebrei che durante la guerra furono salvati dal proprietario di una fabbrica; con la scusa di farli lavorare li ha protetti, non abbandonando mai né loro, né il prezioso foglio in cui erano elencati i loro nomi. Quel foglio ero io.

E così alla fine sono un freddo, insulso, noioso documento burocratico, ma sono anche una lettera d’amore, perché testimonio l’atto d’amore più nobile al mondo: quello di salvare vite umane.

Chi mi ha trovato mi ha dato un nome, e il mio nome è “Schlinder’s List”.

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