La boxe ha il gusto della lingua assetata che si srotola da un corpo sfinito e sbatte su un sorbetto di acqua, zucchero e frutta. Un jab ti fa bollire la pelle ma un diretto sul naso ti fa schizzare il sangue sul ring. Coulis di frutti di bosco che cola su sorbetto di fragola in acqua di menta.
Quella rudimentale attività che l’uomo chiama in vari modi, pugilato, boxe, lotta, che è alla fine il tentativo di regolare l’ancestrale desiderio di annientamento dell’altro, trasuda da tutte le corde del ring il desiderio di vittoria. Quindi alla fragola rinfrescata di menta, che si fa speranza di non stramazzare al suolo, si abbina un tiramisù bagnato di sangue e sudore, senza polvere di cacao ma con fragole di bosco congelate. Perché, nella danza che è un match di boxe, i denti si serrano e il sapore svanisce, il calore dei pugni ti inchioda alla consapevolezza che prima o poi finirà, che si esauriranno le forze del tuo avversario o le tue, nell’arco di una ripresa o più, in cui tre minuti diventano un’infinità.
La boxe è reazione, è energia anche quando credi che il corpo ti stia abbandonando. Perché, se una scarica di jab e diretti sono il bollore fuori dalla gelateria in una calda estate, schivarli disseta come la fragola in acqua di menta e reagire con un montante al fegato dell’avversario è il tiramisù bagnato che ti porta a un passo dalla vittoria. Poi il gancio che tramortisce, la forza torna, il freddo rinvigorisce e il montante finale precede un altro montante, quello che ficca l’osso del naso nel cervello che si fa panna montata e annienta i sensi in un connubio tra piacere e dolore. Il k.o., quello definitivo che lascia sdraiati a terra in una pozza di gelato sciolto, sangue e sudore.