Cosa accomuna Gloria, signora di mezz’età allegra, solare, amante del cibo e con la passione per il canto, e Merle, più o meno 25 anni, chiusa in se stessa, magra ai limiti dell’anoressia, respingente verso ogni contatto umano? Entrambe non sono bianche in un Regno Unito ancora discriminante, entrambe sono in fuga da un dolore spaventoso, entrambe si trovano chiuse dentro un ospedale psichiatrico per un trattamento non volontario.
Gloria ha perso l’amore della sua vita, Josie, e ancora ha remore a rivelare di essere lesbica e innamorata di una donna, dopo l’ostracismo subito dalle famiglie, tanto che le due facevano finta di essere sorelle, e avevano una vita sociale ridotta al minimo per non svelare la verità sulla loro relazione. Josie era il mondo intero per Gloria, e dopo la sua morte subisce un crollo psichico, specialmente dopo che la sorella di Josie, l’assennata Emilie (quella che le aveva scoperte quando erano adolescenti), con un atto di prepotenza decide di prendere tutti gli oggetti di Josie che si trovano nella casa che quest’ultima divideva con Gloria. Il senso di violazione che Gloria sente è enorme, spogliata anche della possibilità di piangere il suo amore, si abbandona a crisi di urla infrangendo il rigido contegno anglosassone.
Merle invece è in pieno shock dopo l’abbandono del marito, molto più grande di lei e suo ex datore di lavoro, e la scoperta, a seguito di un aborto in fase molto avanzata della gravidanza, di non poter più avere figli. Con il corpo chiuso come un pugno, Merle non parla né con i medici, né con gli infermieri, se non per farfugliare il delirio emotivo che la schiaccia. Gloria però riesce a stabilire un fragile sistema di comunicazione con Merle, e insieme le due donne, spinte dai medici, iniziano a tenere ciascuna un quaderno in cui annotare i traumi delle loro vite. L’essere rinchiuso, per le persone che subiscono il trattamento, a volte è una soluzione alla perdita del lavoro, alla mancanza di affetti familiari, alla disgregazione sociale e personale dell’immagine che ognuno ha di sé come di una persona con delle relazioni che strutturano l’identità. Senza un partener o una madre o un figlio siamo profughi emotivi, naufraghi che si aggrappano ai relitti scampati al disastro, ricordi, possibilità, timide speranze prive di un nome che ci renda saldi.
Merle inizia a tradurre la sua mente confusa in parole e scopriamo che prima di sposarsi in maniera affrettata, come se il matrimonio avesse potuto proteggerla dai suoi incubi, era fuggita da una famiglia traumatizzata e ingombrante. Il padre, dopo aver scontato una condanna, al suo rientro in famiglia aveva dimostrato segni di squilibrio, facendo subire alla moglie e alla figlia una forma psicotica di paranoia religiosa, che prevedeva, tra l’altro, la negazione della femminilità della figlia adolescente, quasi che essere donna fosse una colpa da scontare con la segregazione.
In ospedale la socialità è incoraggiata ma solo fino a che è controllata dagli operatori, e sicuramente sono vietate le confidenze, o le forme affettive che comportano apertura psicologica che non sia stata vagliata dai medici. In particolare, considerato che ogni forma di eccitazione può trascendere in una crisi di panico o altro, è vietato cantare, cosa per la quale Gloria soffre terribilmente.
Essere privati degli oggetti della persona amata, essere sottoposti a controllo, dove ogni forma di eccentricità che sfugga a dei parametri accettati diventa soggettività da rinchiudere, non si sa se per rassicurare gli altri, quelli che sono fuori dal sistema ospedaliero psichiatrico, o se per proteggere persone fragili, in balia dei loro demoni. Ma non dobbiamo dimenticare che abbiamo tutti demoni e incubi e deliri dai quali stare in guardia, situazioni che un giorno, senza segnali di allarme, potrebbero ridurci a brandelli. Le linee di confine sfumano quando si tratta di valutare le malattie mentali, il dolore e la solitudine di chi non riesce ad arginare il suo modo di essere vivo e diventa un pericolo, un essere da rinchiudere.
E forse non esiste davvero una differenza tra chi ha viene indicato come paziente psichiatrico (l’equivalente di una lettera scarlatta) e chi invece riesce a nascondere il dolore e magari si rifugia in altre forme di oblio, altrettanto alienanti.
Per guarire dal disagio esistenziale è necessario essere rinchiusi in strutture apposite, oppure, forse, si potrebbero trovare altre forme di cura? Chiaramente il libro non fornisce e non può fornire risposte, l’autrice, anche attingendo alla sua dolorosa personale esperienza, racconta di sopravvivenza in contesti difficili.
Se sei sul fondo di un pozzo, l’unica cosa da fare è guardare il brandello di cielo e nel frattempo usare ogni mezzo per uscire dal buio, scorticandoti le mani, e anche ferendoti gli occhi per la luce cruda e accecante.
Questa storia fa male, specie per la rabbia, intensa, viscerale, che evoca nel lettore, eppure ci fa ricordare che la parola scritta non è solo dannazione, macigno, ma anche, per fortuna, salvezza, poesia, comunicazione. La parola su carta è sempre un tentativo di tenere sotto controllo i demoni e, per un poco, di nascondersi dal loro fiato che sentiamo in corsa con affanno.
“Dopo il ricovero, dobbiamo farti una visita medica. Niente di cui aver paura. È solo una visita di routine.
Dita che la sondano. Che sentono le cose che lei prova a nascondere. Si fa piccola, incastra il suo corpo nello spazio tra la rete del letto e il comodino. Pensa di potersi difendere. La faccia del dottore si contrae. Non doveva toccarla, nemmeno con il guanto. La sua sporcizia lo contamina. Quando la rimandano a casa? Quando sarà pulita abbastanza. Le guardano dentro la testa ma non trovano
Niente dentro di me”.