Diversi anni fa, quando si cominciava a discutere delle scuole di scrittura creativa in Italia, mi ritrovai a intervenire in una sorta di convegno, o forse è meglio dire un piccolo seminario, di responsabili di corsi e laboratori, che allora erano davvero pochi, non una marea come adesso. Qualcuno sosteneva che fosse importante soprattutto scrivere, riunire intorno a sé una comunità di scriventi, senza che questo dovesse preludere necessariamente a una pubblicazione. Ricordo che allora dissi che se dalla mia scuola di scrittura non fossero usciti degli scrittori pubblicati, non avrebbe avuto senso farla. Per questo, ogni volta che qualcuno che partecipa ai laboratori di Scuola Genius pubblica un romanzo, senza nessuna raccomandazione, senza aiuti “importanti”, senza spinte di nessun tipo, io sono decisamente contento. Perché vuol dire che è bravo. Brava è in effetti Caterina Fiume che esordisce con il romanzo Come equilibristi (Scatole parlanti 2023), dopo varie prove interessanti nei racconti (si è aggiudicata la finale di “Radio1Plot Machine Rai”, prestigiosa gara radiofonica di racconti e ha vinto il premio Buduàr per il racconto umoristico nella 22^ edizione del premio letterario “Racconti nella Rete”). Il suo romanzo narra la storia di formazione di un gruppo di amici alle prese con un evento tragico e con la loro scelta di comportarsi in un certo modo. Scelta che segna le loro vite e che poi, molti anni dopo, torna a coinvolgerli. Un bel romanzo, scritto con una prosa elegante e scelte stilistiche non banali. Vale la pena ascoltarla, no?
Cominciamo parlando di te, questo è il tuo esordio nel romanzo. Hai già un’attività lavorativa che ti impegna, cosa vuol dire per te scrivere?
È il mio modo per esserci. Da ragazzina ero timida e avevo il terrore di fare brutte figure, ma una voglia smisurata di farmi notare, di eccellere. Ero bassa, minuta, lo sono ancora, sembravo sempre più piccola dei miei coetanei, insignificante, alla scuola media mi prendevano per una di terza elementare. Così la scrittura mi ha dato l’altezza e la voce. Scrivere è aprire una porta su una dimensione infinita, come l’immaginazione, e plasmabile, a cui solo io posso dare vita, ed è una sensazione unica.
Quanti anni hai impiegato per scrivere questa storia, dalla prima idea di partenza al momento della pubblicazione?
Da maggio 2020 a ottobre 2023, esattamente tre anni e quattro mesi. Eravamo chiusi in casa per il Covid quando ho cominciato a buttare giù la scheda dei personaggi, e ricordo ancora che era una splendida giornata di sole.
Ci sono degli autori di riferimento che hai letto durante la stesura di questa narrazione? E chi sono i tuoi scrittori preferiti?
In cima Dostoevskij con Delitto e castigo e Dürrenmatt con La promessa, anche se Come equilibristi non è propriamente un noir. E due romanzi di formazione che ho sentito molto vicini al mio per il tema, l’amicizia: Il regno degli amici di Raul Montanari e La simmetria dei sentimenti di Eshkol Nevo.
Di autori preferiti ne ho tanti, classici e non, quelli che mi hanno toccato particolarmente: Georges Simenon, Fred Vargas, Agota Kristof, Elisabeth Strout.
Esiste uno stato d’animo preciso che hai voluto indagare in questo romanzo e che corrisponde al titolo Come equilibristi?
Il senso di precarietà, d’incertezza, che ti fa sentire in bilico, il dover mettere in discussione la propria vita senza volerlo fare davvero. E l’impotenza, che è poi l’impossibilità di rimediare a un errore. E dunque il barcamenarsi per restare sul filo, come equilibristi.
La storia è ambientata a Bari, che ruolo ha questa città nello svolgersi dei fatti?
Bari è uno sfondo molto sfumato, non si fa personaggio, ma rimane tela. Viene fuori dalle scene che si svolgono sul lungomare, dal linguaggio che nei dialoghi assume un costrutto dialettale, e da certe abitudini dei personaggi. Bari non è la mia città, anche se ci ho abitato, e ho preferito entrarci in punta di piedi, con una sorta di timore reverenziale.
Al centro del romanzo c’è un fatto molto grave e un patto tra ragazzi che sembra durare negli anni. C’è qualcosa che ti ha ispirato questa storia?
Un amico mi ha raccontato di come si è sfasciato per futili motivi il suo gruppo di amici storici. Mi ha colpito la tristezza della sua voce. Lì è scattata la molla: il tema. Perché il valore dell’amicizia per me è in cima alla lista. E poi mi affascinava l’idea di provare a raccontare un mondo che non è mio, quello maschile. Ma l’amicizia andava messa a dura prova e così la storia ha preso una piega drammatica. L’obiettivo era capire come si reagisce a situazioni tragiche, se sono superabili e a che prezzo.
Quella che racconti mi pare una vicenda di complicità sostanzialmente maschile, le donne restano un poco sullo sfondo, avresti potuto scriverla al femminile?
Le donne sono l’incidente scatenante della storia. Sono funzionali, sebbene non occupino un ruolo da protagoniste. Rimangono in ombra perché lo richiede la storia, eppure quell’ombra pervade di significatività tutto il romanzo. Al femminile, la trama sarebbe stata completamente diversa. Piuttosto quattro donne che si alleano per cercare la verità, ma sarebbe stato un altro libro.
C’è qualcosa di autobiografico, magari nelle atmosfere, oppure è solo invenzione?
La storia e i personaggi sono pura invenzione. Per alcune descrizioni ho attinto, talvolta anche inconsapevolmente, al mio vissuto, alle estati trascorse in campagna, che ricordo con tanta nostalgia, e alla morte di una persona cara. E poi c’è la mia paura “insana” per i cani che ho trasmesso a Paolo e Fabio.
Nel raccontare la vicenda hai usato più di un punto di vista, perché?
La scelta del punto di vista è stata forse la più difficile. Il romanzo è corale, anche se poi campeggia fra tutte la figura di Paolo, ma sentivo l’esigenza di far emergere in alcuni momenti significativi l’intimità psicologica di ciascuno dei protagonisti. Per esempio, quando all’inizio del libro ciascuno di loro presenta l’altro in prima persona e insieme presenta se stesso, attraverso la propria voce. Questa modalità l’ho trovata più efficace della terza persona spalmata su tutto il romanzo.
Alla fine, pensi che i protagonisti si sentano assolti, questi ragazzi si autoassolvono?
Assolutamente no. Finiscono per dare un titolo e una trama precisa alla storia che li ha riguardati, ne prendono coscienza fino in fondo, ma continuano a considerarsi, ciascuno a modo proprio, se non colpevoli, responsabili. E credo che non smetteranno mai di sentirsi Come equilibristi.