Di questo libro mi ha colpito prima di tutto il titolo, apparentemente scanzonato, che fa riferimento a un vecchio gioco al quale tutti quanti (perlomeno quelli della mia età) hanno giocato: Nomi, cose, città. Fa da contrasto la copertina che sembra mostrare una parete graffiata, il cui intonaco bianco (o che almeno inizialmente doveva essere stato bianco) lascia intravedere squarci di muro, graffi, macchie. Un gioco d’infanzia passato attraverso le intemperie della vita adulta. O perlomeno così l’ho inteso io. Quando ho cominciato a leggerlo, Giovanni Granatelli mi è apparso come un narratore di immagini realistiche personali, quotidiane, che tendono attraverso l’emotività di chi scrive e chi legge a diventare universali. Nomi, cose, musica e città (Arkadia Sidekar 2023) è l’apparente brogliaccio di appunti di un uomo che ha pubblicato diversi volumi di versi poetici e narra alcuni passaggi del suo viaggio nella vita. Riuscendo a farlo rassomigliare a quello che ognuno di noi compie. E poi mi piacciono molto le prose brevi. Così nasce questo scambio di domande e risposte!
La prima domanda riguarda la dichiarazione che fai nella premessa: “La scrittura d’invenzione a quanto pare non appartiene al sottoscritto, che peraltro sino a oggi non ne è mai andato in cerca”, pensi che ci sia qualcosa di più nobile nell’autobiografia oppure dipende dalla tua pratica poetica ventennale?
No, non ritengo che la scrittura autobiografica sia più nobile di quella d’invenzione, di cui sono tra l’altro un vorace lettore, semplicemente è come se nel mio cervello mancasse il file della fiction.
Credo che questo dipenda ovviamente anche dal mio nascere allo scrivere come poeta e dunque da una pratica della scrittura intesa come… testimonianza esistenziale diretta.
Non hai mai nemmeno tentato di narrare una storia d’invenzione, magari per mascherare qualche passaggio biografico?
Ci ho provato qualche rarissima volta, come in una sorta di esercizio di scrittura autoimposto, ma mi pareva di risultare un po’ un impostore e che il mio sforzo di immaginazione non avesse alcuna attendibilità, autorevolezza; non convinceva me per primo.
Mi ha colpito il rapporto con la musica ascoltata casualmente che diventa quasi epica al momento giusto. È un’esperienza che provo anch’io talvolta. È solo casualità oppure vedi qualche cosa di più profondo in queste rêverie auditive?
Credo che esista una vera e propria colonna sonora della vita di ciascuno, soprattutto di chi come me ascolta molta musica. Ritengo inoltre che la musica possa sottolineare l’intensità di alcuni momenti così come assegnare magia a circostanze che senza note ad accompagnarle sarebbero risultate meno significative, non sarebbero rimaste incise nella memoria.
Mi pare poi probabile che l’effetto dei suoni agisca pure a un livello inconscio, per combinazioni che ci sfuggono.
Infine sogno, senza alcuna ragionevolezza ma come credo facciano in tanti, che certi brani si presentino o si ripresentino… come messaggi cifrati degli dei.
Talvolta sembri l’attento cronista di te stesso, è una definizione che ti piace o t’infastidisce?
Spero di non esserlo troppo, che i miei tentativi di scrittura siano quanto più possibile rivolti verso un’alterità, contengano un senso di apertura ben oltre la mia misura e la mia persona, che siano autobiografici senza essere egocentrici.
Mi hanno colpito due tassisti avvicinati nel testo, uno che sembra rappresentare un’idea di civiltà e una che pare invece l’opposto…
Penso sia proprio così o almeno è ciò che io ho conservato da quelle brevi esperienze. Due persone che svolgono lo stesso mestiere, fatto di incontri, e che sviluppano verso gli altri e l’esistenza due atteggiamenti diametralmente opposti: l’uno di apertura, curiosità, benevolenza e l’altro di chiusura feroce, gretta, che sfocia in un vero e proprio odio represso.
A quanto pare il libero arbitrio esiste.
C’è un’osservazione continua dell’arte figurativa, cosa rappresenta per te, un rifugio o un’ispirazione? Oppure nessuna delle due cose?
Credo che l’arte figurativa rappresenti per me una risposta privilegiata al mio desiderio, direi quasi bisogno, di bellezza.
A volte nel mio visitare mostre, musei e chiese ho l’impressione di essere mosso da una vera e propria necessità intima.
Ci sono descrizioni di città e paesi stranieri, frammenti italiani, ecc. Sarà banale dire che trovi sempre l’uomo con la stessa umanità imperfetta?
Tutt’altro che banale, direi. Viaggiare ci consegna un sacco di grandi lezioni e tra queste credo vi sia la percezione di un universale umano, con la stessa nobiltà e la stessa miseria a qualunque latitudine.
Una delle pagine che più mi ha colpito è quando parli della casa del Drago, “Per me la casa del drago è quella dell’infanzia” dici e sembra quasi che lo fai en passant ma poi riveli ferite profonde. È per queste ferite che si fa poesia?
Se non è detto che una ferita debba generare una qualche forma di espressione artistica, sono convinto che sia impossibile che nasca poesia (e arte più in generale) senza la premessa di una ferita.
Nella sezione Album la prosa si rarefà e diventa quasi a epigrammi, aforismi, ma in effetti mi pare alludere a immagini, a fotografie, istantanee raccontate. Sono frutto di vere fotografie oppure solo di sguardi?
Sono… fotografie della memoria e appunti ritrovati nei miei taccuini di viaggio. Solo in un paio di casi questi testi brevissimi sono scaturiti direttamente da un’immagine fotografica che avevo conservato e che mi sono ritrovato a osservare e poi provare a tradurre in parole.
C’è una sorta di apertura finale sulla “carità” e la “bellezza”, parole importanti nel lungo inverno. Senti che l’inverno finirà per prendere il sopravvento?
La speranza è che, dentro come fuori di noi, carità e bellezza possano fare da contrappeso a quella componente di insensatezza e di pena se non a volte addirittura di orrore che nell’esistenza umana resta ineliminabile. Insomma, la speranza è che l’inverno non l’abbia vinta in modo definitivo.