“Sì, lo voglio” con Giovanni Follesa

Parla l'autore di una "inchiesta sull'amore" che ha intervistato alcune coppie omosessuali per farsi raccontare le loro storie prima e dopo l'unione civile.

Qualche tempo fa ho intervistato Giovanni Follesa per un libro che ho trovato sorprendentemente utile, We are family, una sorta di saggio narrativo o inchiesta dei sentimenti, che per certi versi mi richiamava alla mente i Comizi d’amore di Pier Paolo Pasolini. Follesa intervistava diverse coppie omosessuali unite civilmente e gli faceva raccontare semplicemente il loro amore, le liti, le gioie, il percorso che li aveva portati a unirsi e infine la loro vita coniugale. Quello che ne veniva fuori era uno spaccato per l’appunto utile. Utile a far scomparire, dalla mente di chi era disposto a leggere con cuore puro, le ombre di pregiudizi irragionevoli e anti storici. Ora torna in libreria con un’altra opera simile: Sì, lo voglio. Storie di unioni civili in Italia (edizioni People 2023), che continua la narrazione allargando il tiro e in fondo facendo riflettere sul fatto che, ad appena sette anni dall’approvazione della legge Cirinnà, c’è ancora bisogno di conoscere le famiglie che si sono formate dal 2016 a oggi. Giovanni Follesa insegna Teoria e Metodo dei Mass Media presso l’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, ma fa molte cose tra la Sardegna – dove è nato – e il resto del mondo, tra l’altro conduce una trasmissione radiofonica su Radio X, Incipit. E sa come trasformare la richiesta dei diritti in una divulgazione chiara e comprensibile per tutti. Così lo intervisto di nuovo.

 

Sì, lo voglio, un titolo che viene direttamente dal matrimonio religioso, giusto?

Volutamente ho suggerito alla casa editrice People di utilizzare la formula che evoca la cerimonia ecclesiale. Si tratta di una provocazione per rimarcare il fatto che in Italia ancora non esiste il matrimonio egualitario, siamo cioè fermi alle unioni civili. E siamo, almeno in Europa, in cattiva compagnia: Repubblica Ceca, Croazia o Ungheria.

 

Mi pare che la questione del matrimonio egualitario sia poco dibattuta, mi sembra che non se ne parli quasi più, come se fosse una questione risolta o archiviata, no?

Purtroppo l’argomento è completamente sparito dall’agenda parlamentare e politica. A onor del vero anche la comunità LGBTQIA+ pare aver allentato la pressione sui soggetti capaci di incidere realmente su un cambiamento che sarebbe epocale. Insomma, se nel 2016 le piazze, prima del voto sulla cosiddetta legge Cirinnà, facevano sentire la voce del mondo omosessuale, ora sono silenti. Troppo. Come è evidente, questo Governo destrorso non farà nulla per superare le unioni e arrivare al matrimonio. Quindi la questione non è risolta, non è archiviata, è affossata. Confido sull’Unione europea, sempre molto attenta ai diritti civili della persona o, come alcuni amano sottolineare, ai diritti umani.

 

Secondo te, è una questione più politica o più di costume?

Ritengo sia un tema schiettamente politico. La società è ancora una volta molto più avanti rispetto alla classe dirigente del Paese. Oggi penso sia inimmaginabile proporre un disegno di legge per scuotere le coscienze impolverate dei parlamentari. Abbiamo visto che fine hanno fatto fare al disegno di legge Zan sull’omolesbobistransfobia.

 

Perché tornare di nuovo sullo stesso argomento del tuo libro precedente, le coppie?

Il primo volume, We are family, era incentrato sulla Sardegna, la mia regione. Ho sentito l’esigenza di indagare la realtà nazionale per mettere a fuoco eventuali differenze geografiche, ripercorrere attraverso le coppie coinvolte un pezzo di storia della comunità LGBT. In altre parole desideravo completare il percorso. Visti i risultati ritengo sia stata una scelta efficace: questo saggio-narrativo è il primo pubblicato in Italia, mette un punto sul cammino difficile delle famiglie arcobaleno.

 

In Italia la discussione sulla famiglia sembra andare da quella tradizionale descritta dal generale Vannacci a quella queer vissuta da Michela Murgia. Che ne pensi?

Iniziamo a declinare il termine al plurale: famiglie. Oggi consideriamo modelli di famiglia accomunati da una relazione affettiva. L’errore di fondo del signore con le stellette è di fossilizzare, nel suo immaginario, l’istituzione familiare allo schema che si è affermato nello scorso secolo. Un paradigma, per esempio, che relegava la donna alla cura della casa e al ruolo di madre, o che non contemplava l’omosessualità. Il nostro quotidiano dimostra nel concreto come ciascun individuo costruisca la propria famiglia, che è unica e senza paragoni. L’idea di famiglia queer ci aiuta a ricordare la storia: ciascuna epoca ha vissuto il suo “tipo” di famiglia. Pensiamo un istante a questa istituzione sociale al tempo degli antichi romani: era tutt’altro e nessuno si sogna di non chiamarla famiglia. Aggiungo che le coppie presenti di Sì, lo voglio restituiscono delle definizioni stupende per descrivere la propria famiglia.

 

Quando Vannacci dice ai gay: “Normali non lo siete, fatevene una ragione”, tu cosa pensi?

Che dovrebbe uscire dalla caverna nella quale vive. Lo si potrebbe paragonare all’uomo di Neanderthal che ignora quanto accade nel mondo esterno, che è andato avanti e non ha mai conosciuto. E ritengo che la vera anormalità sia l’ignoranza – anche affettiva – che dimostra di possedere questo scrittore improvvisato. Purtroppo non è solo, ma è circondato dal cattivo moralismo di una minoranza – stavolta sì – anormale e poco lucida nei pensieri.

 

E quando dice che sono intoccabili e privilegiati?

Ahimè, suscita un riso amaro e carico di dolore. Nei secoli, con l’avvento delle religioni monoteiste, l’omofobia è stata imperante e le persecuzioni contro gli omosessuali incredibilmente crudeli. Parlo di persone castrate, violentate, arse vive. Anche il ’900 è stato terribile: il triangolo rosa nei campi di concentramento nazisti dovrebbe invitarlo a non raccontare sciocchezze. Ultimo dato: solo il 17 maggio del 1990 l’Organizzazione Mondiale della Sanità toglie ufficialmente ogni riferimento agli orientamenti sessuali e alla transessualità dall’elenco delle malattie e dei disturbi mentali. Si è privilegiati quando qualcuno ti cura con l’elettroshock per una malattia inesistente?

 

Stai facendo scoperte particolari in queste tue inchieste sull’amore?

Anna Segre ha scritto che “Amore è un altro mondo / con altre leggi”. Lei, però, è una poetessa. Dopo queste inchieste sono sempre più convinto che nelle scuole si debba insegnare l’educazione sentimentale. Nessuno di noi è attrezzato per riconoscere, convivere e governare i sentimenti. È un’urgenza improcrastinabile, al di là di omosessualità ed eterosessualità.

 

Quando presenti questi tuoi libri sei accolto allo stesso modo in tutte le zone d’Italia? C’è qualcosa che unisce le reazioni del pubblico?

Le chiacchierate pubbliche, in genere, hanno un’accoglienza entusiasta. Diversa la situazione più privata, legata al mondo dei social: spesso ricevo messaggi con insulti, improperi e qualche offesa da profili fake. Chiederei al generalone se anche questo lo possiamo considerare un privilegio.

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Paolo Restuccia

Scrittore e regista. Cura la regia della trasmissione Il Ruggito del Coniglio su Rai Radio2. Ha pubblicato i romanzi La strategia del tango (Gaffi), Io sono Kurt (Fazi), Il colore del tuo sangue (Arkadia) e Il sorriso di chi ha vinto (Arkadia). Ha insegnato nel corso di Scrittura Generale dell’università La Sapienza Università di Roma e insegna Scrittura e Radio all’Università Pontificia Salesiana. È stato co-fondatore e direttore della rivista Omero. Ha tradotto i manuali Story e Dialoghi di Robert McKee e Guida di Snoopy alla vita dello scrittore di C. Barnaby, M. Schulz.

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