Due anni fa mi è capitato di leggere il libro Soldati di sventura di Luca Fregona (Athesia 2021), un’inchiesta storica su una guerra dimenticata come tanti conflitti del passato, e su molti giovani italiani che si sono ritrovati a combattere nella Legione Straniera francese. Non tanto per eroismo o voglia d’avventura ma per la povertà che li ha costretti ad attraversare la frontiera da clandestini e ritrovarsi – per sfuggire al rimpatrio o alla prigione – con indosso una divisa. Ora Fregona, che è un giornalista caporedattore del quotidiano “Alto Adige”, torna in libreria con Laggiù dove si muore (Athesia 2023), scritto con l’ex legionario Giorgio Cargioli, che approfondisce e rafforza la conoscenza di quel periodo e di quelle esistenze. Basta leggere le risposte dell’intervista che Luca Fregona mi ha concesso per comprendere il valore della sua ricostruzione, che è giornalistica e storica, ma scritta con mano felice, narrativa, capace di illuminare biografie fuori dal comune che altrimenti resterebbero nel silenzio.
Ci ricordi di quale conflitto stiamo parlando?
Il contesto è quello della prima guerra di Indocina (1946-1954). La Francia aveva perso la colonia durante il secondo conflitto mondiale. L’Indocina era stata invasa dai giapponesi, che avevano depredato il paese, provocando una carestia che causò due milioni di morti. Ho Chi Minh, con l’appoggio del governo americano, era rientrato dalla Cina, organizzando la resistenza del Vietminh, la Lega per l’indipendenza del Vietnam. Dopo la resa giapponese, il 2 settembre 1945, Ho Chi Minh proclama l’indipendenza ad Hanoi, nel Vietnam del nord. De Gaulle non la prende affatto bene, rivuole indietro la colonia al grido di “Indochine terre francaise”. Manda un corpo di spedizione a Saigon, formato da paracadutisti, truppe coloniali e Legione straniera. Ho Chi Minh tenta la via diplomatica. Chiede una forte autonomia all’interno dell’Unione francese. Le trattative falliscono: nel novembre del 1946, la Marina francese bombarda il porto di Haiphong, nel golfo del Tonchino, provocando seimila vittime tra i civili. Inizia così una guerra che durerà otto anni. Il conflitto di riconquista coloniale si trasforma presto in una sorta di prova generale della “guerra fredda”, con gli Stati Uniti che, lasciato al suo destino Ho Chi Minh, pompano milioni di dollari, armi a consulenti militari alla Francia. Andrà a finire come il successivo “Vietnam americano”, con la disfatta totale dell’invasore.
Come mai hai sentito il bisogno di scrivere un nuovo libro così vicino come argomenti a Soldati di sventura?
Dopo la pubblicazione di Soldati di sventura, ho iniziato a ricevere decine di messaggi di familiari di legionari italiani che hanno combattuto in Indocina. Volevano saperne di più. I reduci non ne parlavano, e sui libri non trovavano la loro storia. Chiedevano una mano, ma mi davano anche nuovi spunti, foto, documenti. Laggiù dove si muore si è scritto da solo.
Chi è Giorgio Cargioli, che firma con te il libro?
Giorgio Cargioli è un ex legionario, vivente, di La Spezia. La sua è una storia di fame. Entra clandestino in Francia a cavallo della Pasqua del 1953 attraverso il cosiddetto “Passo della morte”, il sentiero che parte dalla frazione di Grimaldi, vicino a Ventimiglia, utilizzato ancora oggi dai migranti. Si chiama così, “Passo della Morte”, perché già allora i giovani italiani morivano come mosche cadendo in crepacci e burroni. Giorgio ha 18 anni, per la legge italiana è ancora minorenne. I gendarmi lo arrestano a Nizza e lo sbattono in galera con l’accusa di immigrazione clandestina. In cella si presenta un sergente della Legione di origine italiana. Propone una specie di patto: “Niente prigione e niente rimpatrio, in cambio mi firmi l’ingaggio: avrai pranzo e cena tutti i giorni, e una buona paga”. Lui accetta, perché ha un’idea vaghissima di cosa sia la Legione, e nessuna della guerra che si combatte dall’altra parte del mondo. Per farla breve: già durante l’addestramento in Algeria, si rende conto di aver commesso un errore madornale. Prova a disertare con altri quattro italiani. Dopo alcuni giorni alla macchia, mentre cercano di raggiungere a piedi il confine con il Marocco, vengono catturati da un pied-noir che li riconsegna alla Legione. La punizione è durissima. Nel gennaio del 1954, Giorgio sbarca a Saigon, viene assegnato al Quinto Reggimento di Fanteria che ha il compito di “ripulire” il Tonchino. In realtà, sono i legionari a essere braccati dai partigiani viet. Combatte per sette mesi in prima linea nel fango del delta del Fiume Rosso. Un’esperienza durissima, una carneficina: i suoi compagni gli muoiono intorno uno dopo l’altro. Un giorno, gli ordinano di giustiziare dei civili in un villaggio come rappresaglia per la morte di un legionario, lui si rifiuta di obbedire. Sopravvive fino all’armistizio del 21 luglio, ma ormai ha maturato una profonda avversione per la guerra. In agosto si consegna ai partigiani viet. Gli restano ancora tre anni di ferma nella Legione, e non vuole essere costretto a fare le stesse cose in Algeria, dove la Francia sta combattendo un’altra guerra coloniale contro i ribelli del Fronte nazionale di liberazione. I viet promettono ai disertori il rimpatrio via Paesi socialisti. Lo parcheggiano con altri disertori in un campo al confine con la Cina, dove le condizioni di vita sono al limite per la denutrizione e la malaria. Molti disertori moriranno. Tramontata l’ipotesi del rimpatrio dall’Urss, hanno due possibilità: restare in Vietnam “a costruire il socialismo” o essere riconsegnati alla Francia. Giorgio sceglie la seconda. Viene sottoposto a Corte marziale a Saigon e condannato a due anni da scontare nel carcere delle Baumettes di Marsiglia (a cui dovrà poi aggiungere i tre anni che gli mancano per essere “liberato” dalla Legione). Sulla nave prigione che lo riporta in Europa, sarà protagonista, insieme ad altri 104 disertori, di un clamoroso ammutinamento nel Canale di Suez, che finirà sulle pagine dei giornali di tutto il mondo.
Chi sono gli altri soldati di cui parli?
Per questo libro ho selezionato sei storie. Più un settimo protagonista di cui so pochissimo e, quel poco, grazie a un album di foto che è stato trovato, dopo decenni, nascosto nel fondo di una cassettiera. Si tratta di storie che mi hanno segnalato i familiari, e che ho ricostruito partendo da qualche nome o da particolari (ad esempio, una nota sul dorso di una foto), che mi hanno permesso di capire dove e quando avevano combattuto. Pierino Leone era un partigiano comunista della mitica Repubblica di Cogne, in val d’Aosta. Dopo la guerra, nel 1946, entra clandestino in Francia con il sogno di imbarcarsi per il Brasile. I gendarmi lo fermano al porto di Marsiglia e lo rinchiudono in cella. Anche lui accetta l’ingaggio per levarsi dai guai. Sopravvive al turno di due anni in Vietnam con un paio di cicatrici sul corpo, molte nell’anima, e un mignolo in meno portato via da una pallottola. Il figlio Giancarlo conserva con cura un album con moltissime foto dell’Indocina. In una di quelle pubblicate nel libro, una signora ha riconosciuto il fratello di cui non sapeva più nulla da quando era partito per il Vietnam alla fine degli anni ’40. Pierino aveva annotato il nome. Si chiamava Luigi Baldessari. Ho appurato che è stato ucciso a Huè nel 1951, aveva 26 anni. Nessuno, fino ad oggi, aveva mai avvisato la famiglia. Stesso destino di un altro dei protagonisti, il bolzanino Alfredo Decarli. La sua è una storia davvero tragica. È nato nel 1934. Si arruola, fuori tempo massimo, nell’estate del 1953, quando la sorte della guerra d’Indocina è ormai segnata. Lo fa perché è innamorato di una ragazza di un ceto sociale più elevato. I genitori di lei non danno il consenso al matrimonio, lo considerano di rango inferiore. Allora lui, abboccando all’amo di uno dei tanti reclutatori pagati al “pezzo” che girano l’Italia, firma, convinto, nei cinque anni di ingaggio, di tirare su i soldi per sposarsi. Non dice niente neanche alla ragazza. Prende e parte per Marsiglia seguendo le istruzioni del reclutatore. Poche settimane dopo, scrive disperato dall’Algeria alla madre e alla ragazza. È pentito, ma la Legione non rispedisce indietro nessuno. La ragazza lo lascia con una lettera che gronda rimpianto e rancore per una scelta non condivisa. Poi, il silenzio. Per settant’anni la famiglia non sa più niente, se sia vivo o morto. La sorella, l’unica rimasta, spera che si sia rifatto una vita da un’altra parte. Ed è con questa speranza che mi chiede di darle una mano a trovare delle tracce. Il Ministero della difesa francese risponde che Alfredo non risulta da nessuna parte. Invece, grazie all’Associazione degli ex legionari italiani, arriviamo al suo fascicolo, che si era perso nei meandri polverosi della burocrazia militare. E scopriamo che: Alfredo Decarli arriva in Indocina alla fine del marzo 1954. La guerra è agli sgoccioli. A Dien Bien Phu si sta combattendo la battaglia decisiva: gli aerei francesi non possono più atterrare nella conca, ormai circondata dai 50mila soldati del generale Giap. Decarli, che non ha mai fatto un lancio in via sua, si offre volontario. Viene paracadutato su Dien Bien Phu la mattina del 18 aprile 1954, domenica di Pasqua. Muore il 19 aprile, lunedì di Pasqua. Il suo corpo, seppellito nel fango della conca, verrà disperso dai monsoni. La sua guerra è durata appena ventiquattro ore. Segnato per sempre dal Vietnam è anche il destino di Italo Tamoni, che si arruola a 21 anni nel 1951. Un ragazzo irrequieto. Ingenuamente, spera di trovare nella Legione avventura e i soldi per comprarsi un camion. Finisce a combattere in Laos e nel Tonchino. Il suo migliore amico, con cui era partito da Montichiari, viene ucciso. Il rimorso lo tormenterà per sempre. Torna in Italia con il fisico minato dalla malaria. Prova a ricostruirsi una vita. Si sposa, ha un figlio, abbandona tutto quando il piccolo non ha nemmeno un anno. Torna in Francia, prova a farsi riprendere nella Legione, ma non lo vogliono perché non si regge in piedi. Si ferma in Provenza. Un’altra donna, altri figli, un’altra famiglia, che abbandona di nuovo. Morirà a 66 anni, solo e stanco di tutto. Il figlio italiano ha conosciuto i suoi fratelli francesi grazie alle ricerche per questo libro.
C’è qualcosa che li accomuna oppure hanno storie molto differenti tra loro?
Il filo rosso è quello delle macerie del secondo dopoguerra e dell’emigrazione in Francia. In massima parte, si tratta di ragazzi nati tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta, che varcano il confine da clandestini in cerca di un lavoro. Quando vengono presi, il ritornello è sempre lo stesso: Legione o prigione? Ci sono anche giovani italiani, assunti come minatori grazie a un accordo tra i due governi, che fuggono dai pozzi del Passo di Calais per le condizioni estreme in cui sono costretti a lavorare e per il razzismo nei loro confronti. C’è sempre qualche reclutatore che si aggira come un avvoltoio, facendo leva sulla disperazione e la miseria. Poi, ex fascisti, come Ildo della Torre di Valsassina: la Legione straniera, per lui, è una zattera per salvarsi dal caos del dopoguerra. È un “ragazzo del ’22” , nato e cresciuto sotto il fascismo, figlio di un conte di ramo cadetto. A 17 anni, convinto dal professore di greco, si arruola volontario nei Battaglioni giovani fascisti. Nel dicembre 1941 è nella ridotta di Bir el Gobi, in Libia, con i “Mussolini Boys” a tenere testa agli inglesi. Si becca due pallottole in pancia e viene fatto prigioniero. Dopo la fine della guerra, non sa come ripartire. Resta nascosto nel Bergamasco. Poi, nel 1948, passa di nascosto il confine con l’Austria e si presenta all’Ufficio della Legione di Innsbruck. A Marsiglia diventa amico di Giuseppe Bottai, l’ex ministro di Mussolini, che, dopo aver votato l’ordine del giorno Grandi, si era arruolato nei Kepì blanc per sfuggire sia ai fascisti sia agli alleati. Bottai ha combattuto contro i nazisti sulla linea del Reno ed era prossimo al congedo. Ildo parte per l’Indocina nel 1949. La sua è una scelta consapevole. Sa fare solo quello: il soldato. È con il Terzo REI a tenere la strada coloniale che collega Hanoi alla guarnigione di Cao bang, al confine con la Cina, sotto costante attacco viet. Sopravvive a un’imboscata in cui vengono uccisi diversi legionari italiani, di cui annota scrupolosamente i nomi perché “non vengano perduti”. Dopo alcuni mesi, viene spedito sulle montagne a tenere i contatti con le tribù. Impara i dialetti, smette di portare l’uniforme, si avvicina al buddismo e al culto degli antenati. Un vero viaggio nel cuore di tenebra. Finita la ferma dei cinque anni, chiude con le guerre e si ricostruisce una vita a Trieste. Compra una casa a Grozzana, proprio sul confine con la ex Jugoslavia. Impara lo sloveno e accoglie tutti in casa, anche chi fugge dai paesi dell’Est. Quando muore, lascia detto di essere seppellito nella terra di Grozzana e non nella tomba di famiglia nel castello di Duino. Insomma, per rispondere alla tua domanda, si sentivano, in molti, dei perdenti. Della guerra o della vita.
Come riuscivano a comunicare con i loro genitori, con le famiglie, senza la moderna tecnologia, ci riuscivano?
Il servizio postale della Legione era molto efficiente. Le lettere venivano recapitate ovunque, e da ovunque loro potevano spedirle. Certo, molte andavano perdute o subivano la pressante censura militare. Ma tante arrivavano a destinazione. I legionari allegavano foto con brevi descrizioni sul dorso. Foto di vita quotidiana, poche di trincea. Più che altro per tranquillizzare o mostrare qualcosa di straordinario: le pagode, i bonzi, gli elefanti, le scimmie… il libro riporta oltre 150 scatti, scelti tra centinaia conservati con cura e dedizione dalle famiglie.
Mi sembra che tra loro resti comunque vivo un senso dell’onore molto sentito, malgrado la scelta di combattere una guerra come quella, che ne dici?
“Legio patria nostra”, nel bene e nel male. Per molti di loro è stata una vera dannazione, ma anche l’unica casa. L’unica scialuppa in anni in cui non riuscivano a vedere un futuro, una prospettiva. Erano mercenari, certo, ma in tempi in cui la guerra era una dimensione di vita quotidiana. Non si può giudicare con gli occhi di oggi. Si calcola che siano stati almeno settemila i giovani italiani che hanno combattuto in Indocina con la Legione straniera: 525 sono i caduti “ufficiali”, a cui vanno aggiunti i dispersi (un numero imprecisato, che nessuno si è mai preso la briga di contare), i feriti, e quelli tornati fuori di testa per lo stress post traumatico. La Francia ha utilizzato come carne da cannone migliaia di giovani europei con la Legione straniera (italiani, tedeschi reclutati a forza in Alsazia e nei campi di concentramento, spagnoli, polacchi) e migliaia di giovani africani delle truppe coloniali (algerini, marocchini, senegalesi). Erano tutti pendagli da forca? No. Tanti avevano firmato dietro ricatto, non avevano la minima cognizione di chi diavolo fosse Ho Chi Min o di dove diavolo fosse la dannata Indocina. Centinaia hanno disertato. Quelli fisicamente più forti (la selezione era molto dura) hanno poi combattuto con i partigiani viet contro i francesi. È una storia con mille declinazioni. Il senso dell’onore c’è, perché chi sopravvive resta sempre lì con la testa, in Vietnam. Col pensiero ai compagni morti, alle atrocità commesse e subite. “Onore”, per loro, significa non dimenticare. Conoscevo un legionario che periodicamente andava a Dien Bien Phu per partecipare a cerimonie comuni tra reduci della Legione e dell’Esercito di Liberazione. Non si odiavano più, piangevano insieme i loro morti.
C’è un ampio corredo iconografico, che mi sembra importante quanto il testo scritto, no?
Sì, perché sono foto che nessuno ha mai visto, almeno in Italia. Eppure, sono convinto che ce ne siano ancora migliaia nei cassetti di molte famiglie del nostro Paese. Le hanno tenute nascoste, perché ci si vergognava di avere un papà o un figlio legionario. Anche se, come detto, erano migliaia i giovani ingaggiati, e le pagine dei giornali degli anni ’50 erano zeppe di appelli di genitori che denunciavano questo arruolamento illegale nel nostro Paese o chiedevano alle autorità francesi di rispedire a casa i loro figli. Il papà di Giorgio Cargioli, che all’epoca aveva 49 anni, si era offerto di prendere il posto del figlio in Vietnam. “Vengo io a combattere – scrisse all’ambasciatore francese –. Lo so fare, onorerò la bandiera francese come fosse la mia, ma risparmiate mio figlio”. Aveva chiesto aiuto persino al Papa.
Secondo te, perché di questa vicenda non si parla, non si girano film eroici, resta tutto nascosto?
Me lo chiedo anch’io. Credo per un pregiudizio. Sembra che se tu racconti le storie dei legionari, che erano dei mercenari, nessuno lo nega, giustifichi il colonialismo e il massacro della popolazione vietnamita. Non è assolutamente così. Anzi: è l’esatto contrario. Il Vietnam ha pagato un prezzo altissimo nella sua storia millenaria. Prima i cinesi, poi i francesi, poi i giapponesi, poi di nuovo i francesi, e, alla fine, gli americani… io, però, vedo buona parte di quei legionari che, va ricordato, avevano in media dai 18 ai 22 anni, come vittime della miseria e di un ingranaggio che li ha stritolati. Vittime anche loro del colonialismo. La Legione, almeno fino alla riforma del 1962 dopo il fallito putsch in Algeria, era un approdo per i disperati e i vinti di ogni generazione. Aveva anche un lato romantico, immortalato in film come Beau Geste con Gary Cooper, che ha fregato diversi ragazzi attratti dall’illusione di una vita esotica e avventurosa. Ma quella d’Indocina, come il “Vietnam” americano, è stata una guerra talmente sporca, che i Paesi europei hanno visto bene di nasconderla sotto il tappeto della Storia. Pochi lo sanno, ma è stata la Francia la prima a utilizzare il Napalm. E i governi tedesco e italiano non hanno mosso un dito per impedire l’ingaggio dei loro ragazzi o per toglierli dall’inferno del Tonchino. A memoria, ricordo solo un film “occidentale”, peraltro bellissimo, che parla di quel conflitto. Si tratta de La 317ème section di Pierre Schoendoerffer. Racconta la lotta per la sopravvivenza di un plotone braccato dai viet nella giungla al confine con il Laos. Schoendoerffer era un reduce di Dien Bien Phu. Venne fatto prigioniero e sopravvisse alla “marcia della morte”. Ecco: la La 317ème section, un film sobrio, crudo, senza fronzoli, risponde a molte domande sull’onore, l’orrore, il cameratismo, l’inutilità della guerra.
Queste ricerche ti stanno insegnando qualcosa che non sapevi sugli uomini e sulle azioni che possono compiere?
A Giorgio Cargioli viene ordinato di uccidere donne e bambini per rappresaglia. Lui si rifiuta, sapendo che gli può costare una pallottola in testa. Ma quando gli ammazzano uno dei suoi migliori amici, in combattimento, si vendica con ferocia. Un giorno, un ragazzino, accusato di essere un partigiano, gli scappa sotto gli occhi. Lui fa finta di niente e non gli spara. Ma quando gli ordinano di tenere fermi due adolescenti sotto tortura, obbedisce anche se non vorrebbe. La guerra è questo schifo qui. Un’oscillazione costante tra il Bene e il Male: la lotta per la sopravvivenza ti fa fare cose che non vorresti mai, ma a volte riesci anche dire “no”. Puoi diventare un eroe o un criminale assassino per un puro caso del destino. Spesso, le due cose coincidono. Io non so come mi comporterei in una situazione così estrema. Ho paura di quello che potrei arrivare a fare per vigliaccheria o per salvarmi la vita. Se fossi oggi in Ucraina, quale sarebbe il mio limite? Spero di non dovermi mai mettere alla prova. Mi fa rabbrividire che in due terzi del pianeta, ogni giorno, le persone vivano e muoiano in una precarietà tanto atroce.