Torna in libreria Marco Proietti Mancini con il libro che s’intitola Io sono Hotel Garibaldi (Ensemble 2023) e devo dire che come titolo potrebbe apparire perlomeno stravagante a uno sguardo superficiale. Invece il romanzo (perché di questo si tratta) lo giustifica bene, in modo verosimile e convincente, tanto che alla fine non solo risulta credibile ma ci fa tifare per un uomo di nome Hotel durante tutta la lettura della storia. Si tratta della vicenda di un bambino, nato per caso da una cameriera che lavora in un albergo di lusso, appunto il Garibaldi. La ragazza lo partorisce dopo una fugace avventura con un ospite dell’albergo che poi l’abbandona, o forse parte semplicemente perché il suo soggiorno è terminato. Da questo osservatorio particolare, ma in fondo privilegiato, Hotel (chiamato così perché la madre lo chiama Otello, ma alla fine lui s’immedesima proprio completamente con il palazzo in cui vive) segue sostanzialmente tutta la storia del secolo breve (così viene chiamato il Novecento nel periodo delle guerre mondiali e del socialismo reale). Valeva la pena fare due chiacchiere con l’autore di questo romanzo, no?
Un bambino di nome Hotel, come ti è venuto in mente?
Scrivere questo romanzo è stato giocare con le parole, richiamare dal mio passato echi e suggestioni di quello che ho letto nella vita; Otello, Hotello, Hotel è stato un gioco di parole in cui ho infilato dentro sia il richiamo alla tragedia di Shakespeare, sia anche – almeno, io ci ho provato – l’interrogarsi sul senso dell’esistenza di Amleto che il protagonista si trova a farsi.
C’è un po’ l’eco del Novecento di Alessandro Baricco?
Io spero molto più di una eco, la mia intenzione è dichiarata, tanto palese da poter sembrare sfacciata. Ritengo Baricco uno dei più grandi letterati (non ho usato la parola “scrittore” o quella di “narratore”, ma ho scelto la definizione “letterato” intenzionalmente) dei nostri tempi, capace di confrontarsi con qualsiasi forma dell’arte narrativa e di creare – lui come pochissimi altri – forme di espressione e comunicazione non esistenti. Il mio è un atto di omaggio, di ossequio, una riscrittura in diversa forma e ambientazione e stile, del suo Novecento. Prima di lui nessuno, dopo di lui io, che ho voluto confrontarmi con il rischio della claustrofobia e della mancanza di prospettive “fisiche”, eppure provarci.
Il mio Hotel non è il suo Novecento, non l’ho plagiato, meno ancora copiato. Ho provato a scrivere la storia del suo gemello. Mi piacerebbe che qualcuno gli mandasse una copia del mio romanzo e gli dicesse: “Ti hanno copiato!” Mi piacerebbe che lui, dopo averlo letto, rispondesse: “No, non è una copia”.
Come nasce questa storia, qualcuno te l’ha narrata?
Come sempre succede in ogni romanzo, in maniera conscia o inconscia, consapevole più o meno, ci sono parti che “ci sono state narrate”. Richiami a storie vere, a vite vere. La “riffa di Natale” esiste davvero? Chi può saperlo? E ci sono state persone che si sono uccise in una stanza di Hotel? Fin troppe (altro richiamo che mi sono “divertito” a infilare nelle pagine). Nessuno può avermi raccontato la storia di Hotel, a parte Baricco, come scritto sopra. Ma adesso che io l’ho scritta, qualcuno può dire: “Forse è esistito davvero un bambino, ragazzo, uomo, che si chiamava Hotel”.
Il romanzo si svolge a Napoli, avrebbe potuto essere stato ambientato in qualche altra città, secondo te?
No. Napoli è la mia città amante, cosa che ho ripetuto e ripeto fin troppo spesso. Napoli è una città a strati, fisici e sociali, culturali. Napoli ha il mare e una montagna che vive. Napoli è un grande Hotel che vive, un formicaio dove è impossibile distinguere le pareti dalle persone. In nessuna città la nobiltà è tanto aristocratica quanto a Napoli, ma pure il popolo è più popolare che in qualsiasi altra città. Napoli accoglie, assorbe, integra senza neanche scrivere un “progetto di integrazione”, a Napoli ci si integra per osmosi – e io ne sono la dimostrazione vivente. Quindi, per risponderti, dove altro avrei potuto scrivere una storia che si svolge tutta tra quattro mura eppure la città “fuori” si sente, si vede, si vive?
Poi a un certo punto arriva Angelo, e che succede?
Tornando a una tua domanda precedente, Angelo è un richiamo a una persona realmente esistita. Si chiamava Angelo, era molto vecchio e per un numero incalcolabile di anni era stato il factotum di un albergo di Roma, uno dei più lussuosi, ancora esistente. Angelo lavorava in quell’hotel ogni giorno, dalle sei di mattina alla sera tardi, riparava tutto – o per meglio dire, aggiustava qualsiasi cosa – era un fantasma che nessun cliente dell’hotel vedeva, ma era lui che faceva funzionare le cose. A casa di Angelo c’erano forchette e coltelli, bicchieri e tazze scompagnati ma di lusso, oggetti che lui non avrebbe mai usato, ma che aveva vinto durante una delle riffe, binocoli e macchine fotografiche, orologi e bottiglie di profumo. Angelo mi è servito per essere il catalizzatore della trasformazione di Hotel, e per lui ho usato la suggestione del capitano D’Arnot per Tarzan.
Che cosa trovi in un albergo di così affascinante?
Ennesimo divertimento che mi sono tolto, ennesimo richiamo che ho provato a fare. Overlook Hotel. Un Hotel – e io ne ho frequentati tanti, troppi, svegliandomi la mattina e chiedendomi “dove sono?” – per usare una definizione trita e abusata, è un “non luogo” per eccellenza. Dove altro avrei potuto ambientare una “non vita”? Peraltro, con la sfida – a me stesso – di dimostrare che un “non luogo” può diventare un mondo intero, in cui vivere una vita pienissima. Ancora una volta, transatlantico contro Hotel, Novecento contro Hotel.
Trovo che in questo romanzo la tua scrittura sia più appassionata, più coinvolgente del solito, sei d’accordo?
Io posso solo risponderti che questo è il romanzo che più mi sono divertito a scrivere, perché ci ho messo dentro – l’ho già scritto, lo so – tutto quello che è la mia formazione di lettore dall’adolescenza a oggi. Ti rivelo un segreto, quando Matteo Chiavarone di Ensemble mi ha chiesto: “Perché non mi mandi qualcosa? Proviamoci a fare qualcosa insieme, dai!” Io gli ho risposto, con molta sincerità: “Ti mando una cosa che mi hanno rifiutato tutti”. Perché io questo romanzo ho finito di scriverlo – editing a parte – più o meno nel 2018.
Quando mi ha richiamato, più o meno mi ha detto: “Sono dei pazzi!” Forse il complimento più bello che ho mai ricevuto da un addetto ai lavori.
Quali autori del passato o del presente – se ci sono stati – ti hanno ispirato nella scrittura di questa storia?
Ce ne sono stati troppi per citarli tutti, quindi ti produco un elenco molto parziale; ti ho detto, mi sono divertito a spargere indizi e tracce e riferimenti lungo tutto il romanzo. Comunque: Shakespeare, Omero, King, Baricco, De Luca, de Giovanni (che non ringrazierò mai abbastanza per una postfazione che secondo me è più bella del romanzo stesso), Burroughs.
Secondo te, in un romanzo, è più importante la scrittura o la storia e in che modo si compensano?
Lunga discussione in merito con due carissimi amici (e grandi scrittori); Alessandro Berselli e Gianluca Morozzi. In tre abbiamo prodotto tre classifiche diverse. Per me, nell’ordine, Personaggi, Stile, Storia.
In realtà, alla fine, abbiamo convenuto in un salomonico 33/33/33, stile Non ci resta che piangere. Un romanzo ha bisogno di tutte e tre queste componenti e, come nella Trinità, ognuna promana dalle altre e alla fine sono una cosa sola. E con questo, ho citato pure qualche Papa.
Hai scritto, mi pare, di amare molto Simenon, ce lo ritrovi in quello che scrivi?
Ennesima citazione che mi permetto di farti per risponderti: “Ma magara!” (Il compianto Carletto Mazzone, anche detto il sòr Magara).
Simenon per me è quasi un’ossessione letteraria. Come scrittore lo adoro, lo venero, è la perfezione fatta parola. Come uomo, mi sia concesso, lo schifo. E questo manda in frantumi la mia coerenza, perché mi viene da dire che sarei disposto perfino a perdonare le sue umane nefandezze, i vizi e le aberrazioni, pur di poterlo leggere. E in questo romanzo, ebbene sì, ho provato a richiamare anche le sue atmosfere e ambientazioni.