“L’abitudine sbagliata” di Francesca Capossele (Playground)

La forza narrativa di questo romanzo è tutta nei piccoli gesti esposti e trattenuti di quattro amici, con una voce narrante che fa da contraltare alle storie degli altri.

Tre amici che poi, dopo il liceo, diventano quattro. Un numero di forza, una potenza. Due ragazzi e due ragazze, apparentemente due possibili coppie, e, in effetti, un paio di loro ci provano a stare insieme, ma le carte sono rimescolate e le cose, sotto la tranquilla superficie di immagini rassicuranti di ragazzi seri, appartenenti alla media borghesia del centro nord, sono diverse da come appaiono. Per citare la grande Emily Dickinson, “La verità dilla ma obliqua altrimenti renderà tutti ciechi”. La forza narrativa del romanzo è tutta nei piccoli gesti esposti e trattenuti dei quattro amici, e la voce narrante, Maria, non la più bella delle due ragazze, ma sicuramente la più testarda, la più connessa con le sue contraddizioni, fa da contraltare alle storie degli altri.

Lalla, Bruno, Maria. Crescono vicino a un fiume, compiono vent’anni nel momento delle grandi contestazioni giovanili all’Università, hanno segreti e ambizioni inconfessabili. Le ragazze sono consapevoli che il loro genere di nascita le condanna al destino, pare irrinunciabile, di mogli e madri, ma loro non hanno nessuna intenzione di accettare i condizionamenti culturali che vedono le donne come angeli del focolare. Lalla decide di non voler sposare il suo fidanzato del liceo, un bravo ragazzo che non ritiene importante fare l’Università per nessuno dei due, e che si accontenta di fare il geometra, non che ci sia nulla di male, ma a Lalla non va giù la falsa morale incisa nei volti della madre e della sorella: bisogna accontentarsi. Maria seduce il suo dentista, un ex ufficiale medico decorato durante la guerra, che ha 40 anni più di lei, e quello che le piace di questa relazione clandestina è proprio il fatto che è un piacere riservato a lei sola.

Entrambe, soprattutto Maria, che si atteggia a fidanzata, proteggono Bruno dal suo bisogno di amare i ragazzi, e lo sostengono nella sua dolorosa solitudine. Bruno è schivo e sa che, nonostante i tempi siano cambiati, non potrà vivere le sue relazioni alla luce, non potrà baciare chi gli piace, ma sarà sempre confinato nell’oscurità dei vicoli, nella colpevolezza di essere un uomo che desidera altri uomini. Quello che lui cerca, in realtà, è proprio quello da cui le sue amiche rifuggono: una pretesa normalità, la stabilità emotiva e anche il matrimonio, cosa impensabile nell’Italia degli anni ’70 e nella provincia che si nutre di chiacchere e scandali per sfuggire alla noia.

Eppure, il fiume orienta il sonno e la vita dei tre ragazzi, nello stesso modo in cui accade per chi vive accanto a un vulcano, e lo scorrere lento e placido, nonostante tutto, del fiume è il legame che tutti loro conservano con le famiglie dalle quali fuggono. Quel fiume, quella provincia è il confine del loro regno, e lo oltrepassano quando conoscono Luigi, detto Luis, un ragazzo che si aggiunge al gruppo, andando a vivere con i tre amici, e dividerà con loro le spese di un minuscolo appartamento. Sembra un nuovo amico, un ragazzo bello e interessante, con i capelli lunghi e l’aria furba e piratesca di chi è capace di spezzare molti cuori, ma in realtà Luis sarà l’incognita che farà saltare gli equilibri.

Luis ha una storia con Maria e poi si lega a Bruno, ed è la fragilità e il bisogno di Bruno che diventa un ostacolo alla loro storia. Luis lo ama, certo, però è giovane e ha fame di vita, di esperienze, cose che Bruno non condivide e non approva. In un mondo dove il poliamore non ha ancora un territorio definito, Bruno sente accumularsi strati di inadeguatezza, che diventano le sue sbarre simboliche, la prigione dalla quale non riesce a evadere.

Maria sta sull’argine e guarda i suoi sentimenti cambiare, la sua fuga diventare estrema quando va a vivere a Roma, ma è ancora attaccata a quel lembo di giovinezza condivisa con gli amici e che per lei e per i sopravvissuti avrà sempre i loro quattro nomi. Cosa succede a chi diventa adulto e sopravvive alla sua giovinezza è un momento difficile da raccontare, il territorio emotivo della solitudine è il prezzo che paga chi non si piega agli schemi, alle abitudini. Lalla, Maria, Bruno e Luis hanno in comune l’abitudine di voler vivere a loro modo, consapevoli, nel modo spesso incomunicabile, che la rivendicazione della libertà confina con il dolore, ma anche con quel momento incandescente di luce accecante in cui siamo più che corpi.

La scrittura lascia tracce, e in questo romanzo possiamo ritrovarci o perderci, però una cosa è certa: siamo tutti in cerca del nostro personale, a volte scomodo, modo di stare al mondo.

 

La fotografia inizia oltre un torrente di sassi grigi. Quattro ragazzi camminano nella luce di un pomeriggio di fine estate. Sembrano due coppie, e poiché sono giovani è facile pensarli felici. Uno sbaglio comprensibile.

Non sentono i rumori che li circondano, anche le voci umane si perdono. Rimane solo la montagna, che è un palazzo di lastre di roccia.

L’immagine è terribile, e noi ci siamo dentro, prigionieri.

Non ho questa foto, non è in nessun album, in nessun cassetto. Non si accartoccia, non ingiallisce. Semplicemente mi basta pensarci ed è davanti a me.

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Marilena Votta

Marilena Votta nasce a Napoli e trascorre la sua infanzia e adolescenza in un luogo fatto di sole accecante e ombre altrettanto tenaci. Ha pubblicato le raccolte di racconti Equilibri sospesi, La ragazza di miele e altre storie (Progetto Cultura, 2016) e Diastema (Ensemble, 2020), e la raccolta di poesie Estate (Progetto Cultura, 2019). Il suo racconto “Fratello maggiore fratello minore” è stato pubblicato nell’antologia “Roma-Tuscolana”. Alcuni suoi racconti sono disponibili su varie riviste on line e cartacee. Nell’ottobre 2021 pubblica il suo primo romanzo, Stati di desiderio, con D editore. Del suo rapporto con la scrittura asserisce, convinta, che è il suo posto nel mondo. Scrive recensioni di libri che ama per "Dentro la lampada", la rivista della scuola Genius.

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