C’è una casa editrice che da molti anni, e precisamente dal 1987, ha creduto nella narrazione di viaggio, nei racconti di chi esplora luoghi a lui (e a non pochi altri) sconosciuti, ma anche di chi ama andare in bicicletta e camminare nei sentieri del mondo. Si chiama Ediciclo e con mia sorpresa ha pubblicato da poco L’incantesimo dei luoghi di Valentina Evangelista. La sorpresa non sta certo nel libro in sé, che stiamo per scoprire, il fatto è che conoscevo Evangelista come scrittrice di racconti fantastici e narrazioni lunghe (ha pubblicato anche un romanzo, Primo piano interno tre, Edizioni Ensemble, 2021), e scopro con questa pubblicazione che si dedica al racconto di viaggio e ha all’attivo pure due guide per ragazzi viaggiatori. Questo libro non è propriamente una guida, ma è forse più chiaramente accostabile al resoconto di un percorso iniziatico per quanto narrato quasi in punta di piedi. Già il sottotitolo dice molto: Piccole fughe verso l’ignoto, dove l’aggettivo “piccole” non deve ingannare, se si tratta di ignoto basta anche solo una breve fuga per disperdersi e giungere più o meno in un’altra dimensione. Si legge con curiosità e non manca di riflessioni profonde, anche se apparentemente semplici, questo tragitto che va dal Sacro Bosco di Bomarzo al Giardino dei Tarocchi, a Castel del Monte, alla Casina delle Civette, a Palazzo Schifanoia, alla Cappella Sansevero, alla Porta Alchemica qui a piazza Vittorio a Roma (a due passi da Scuola Genius) e a Villa Palagonia. Valentina Evangelista è riuscita così quasi senza parere a raccontarli e a trovare un itinerario comune che li può comprendere tutti. E che non si tratti solo di una passeggiata spensierata l’annuncia già all’inizio del discorso la citazione di Tommaso D’Aquino che apre il libro e che non parla affatto di viaggi ma direttamente di mutazione alchemica: «Se dopo un mese o due vorrai osservare i fiori vivaci e i colori principali dell’Opera, ovvero il nero, il bianco, il giallo citrino e il rosso, allora senza alcuna altra operazione manuale, ma solo con la regolazione del fuoco, ciò che era manifesto sarà nascosto; ciò che era nascosto sarà manifesto». E a questo punto, vale la pena fare con Valentina Evangelista la mia consueta conversazione letteraria, no?
Ti ho lasciata romanziera, ti ritrovo narratrice di viaggi, com’è avvenuta questa metamorfosi?
Il desiderio di sperimentare questa nuova forma espressiva è scaturita proprio dai luoghi speciali che ho avuto modo di incontrare nell’ultimo periodo. Ho l’abitudine, quando una situazione o un luogo colpiscono la mia attenzione in modo intenso, di scrivere appunti e impressioni per non lasciare che quelle sensazioni svaniscano come certi bei sogni. Riprese in mano queste annotazioni, una volta tornata, ho provato il desiderio di ripercorrerle in una narrazione organica, arricchita dallo studio che mi ha permesso di approfondire questi luoghi e comprenderli in modo più profondo.
Cos’è l’incantesimo dei luoghi?
L’incantesimo è, per me, il dono che certi luoghi decidono con grande generosità di farci. È un’opportunità che ci offrono, a patto di dimostrarci disponibili all’ascolto e alla comprensione delle ragioni e dello spirito con cui sono stati pensati e creati. Gli otto luoghi narrati nel libro sono stati tutti partoriti da un’idea molto profonda, quella di farci abbandonare certezze e coordinate già conosciute e soprattutto il pregiudizio che esse, per forza di cose, cementano in noi. Le menti che hanno lavorato all’ideazione e costruzione di questi “itinerari di pietra” erano molto illuminate, tolleranti, curiose, disposte persino a farsi deridere e offendere pur di perseguire l’idea che un modo migliore fosse davvero possibile e che l’Uomo potesse davvero evolvere da un punto di vista spirituale.
Questo racconto sembra quasi un percorso iniziatico, citi gli antichi alchimisti, luoghi ritenuti “magici” da molti, Hillman e Jung, come si fa a vedere oltre la banalità?
L’alchimia è un elemento che si rintraccia in ognuno di questi luoghi, un filo che idealmente li connette in maniera molto potente e suggestiva. Se le tre fasi che conducono alla trasmutazione della materia (nigredo, albedo e rubedo) sono state per me davvero complicate da comprendere (il linguaggio alchemico è un terreno complesso e mobile affidato alla ricerca, allo studio e alla contemplazione), molto appassionante si è rivelata l’interpretazione che ne diedero Jung e Hillman. Ciò che questi ultimi ipotizzarono è che Materia fosse una metafora per indicare il processo di realizzazione spirituale dell’individuo. La pratica alchemica potrebbe, in tal senso, riferirsi al processo dell’individuazione, che ha come coronamento la piena realizzazione del Sé, e così la Pietra Filosofale rappresenterebbe il pieno fiorire del proprio essere attraverso l’espressione del proprio daimon interiore. In questo viaggio, nella serie di tentativi e anche di insuccessi e cadute, probabilmente ci si affranca dalla “banalità” di conoscere, sperimentare ed esprimere se stessi in modo del tutto parziale.
Tra i diversi luoghi che narri, dal Sacro Bosco di Bomarzo alla Porta Alchemica, dal Giardino dei Tarocchi alla Cappella Sansevero, ecc., ce n’è uno al quale sei più legata?
Ognuno di questi luoghi mi ha lasciato un insegnamento prezioso ed è stato anche motivo di grande felicità per me, ma forse quello che mi è diventato più caro e dove vorrei tornare presto è Villa Palagonia, a Bagheria. I monstra, con i quali il principe Ferdinando Francesco Gravina volle decorare il muro di cinta della villa edificata dal padre, resistono alla sciocca leggenda che lo descriveva come un essere deforme invelenito con il fato e con il mondo e persino a un’urbanizzazione selvaggia che oggi, con disprezzo e ignoranza, minaccia le sue sagge sentinelle. Quelle creature di pietra d’aspra ci invitano a comprendere che la bellezza non corrisponde a un canone ideale, ma è spesso sproporzione, stortura, persino disarmonia estetica, in ogni caso unicità, amorevole e indulgente accettazione di sé.
Secondo te, oggi c’è un maggiore bisogno di fughe rispetto a qualche anno fa?
Il desiderio e bisogno di fuga, che spesso coincide con l’incapacità, o la mancanza di volontà, di guardarsi dentro, lo riscontro parecchio, sia in me che intorno a me. Il viaggio può essere considerato una fuga, certo, ma credo sia soprattutto un’opportunità di spostare lo sguardo da sé stessi e considerare una visione delle cose da un punto di vista più ampio, diverso, rinnovato.
Qualche volta nel viaggio confessi la tua ignoranza e la susseguente bellezza della scoperta, come nel caso di Duilio Cambellotti e della “Casina delle civette”, anche questo è un percorso di conoscenza, quindi non c’è bisogno di sapere tutto, no?
I luoghi che descrivo nel libro hanno molto a che fare con l’ignoranza e la superstizione in cui, per secoli, sono stati avvolti. I loro creatori sono stati spesso bollati come negromanti, i loro testamenti volutamente ignorati, le loro biblioteche distrutte, il messaggio di cui si facevano portatori completamente travisato e derubricato a becero esoterismo. La mia, di ignoranza, cerco di sanarla coltivando la curiosità e vincendo la pigrizia dell’accontentarmi di ciò che mi viene proposto come immutabile dall’esterno. Non si potrà mai sapere tutto, ciò che credo sia più importante è allenare e nutrire quotidianamente la spinta e l’esigenza di conoscere sempre un po’ di più e sempre un po’ più in profondità. Questi luoghi offrono, per molti motivi diversi, una grande fonte di ispirazione in tal senso.
Sembra che tu voglia dirci proprio di prestare più attenzione a ciò che ci circonda per cogliere segni e simboli intorno a noi…
Il tentativo del libro è proprio questo, comunicare questa curiosità e anche il senso di felicità che ho provato nello sperimentare ciò che antenne più vivaci e sensibili possono diventare in grado di percepire.
In questo viaggio ti consideri una turista?
Mi piace pensare di essere più una viaggiatrice che una turista. Anche per questo ho desiderato concludere il libro con una frase per me molto significativa di Viaggio in Portogallo di José Saramago. Lo scrittore, in questo libro che ho molto amato, parla di sé stesso come di un viaggiatore nel suo stesso paese. La disposizione all’osservazione, al cogliere la bellezza anche in itinerari inconsueti e non programmati, la capacità di considerare gli inciampi e gli imprevisti una parte preziosa e istruttiva del percorso rendono tale, per me, un viaggiatore.
Credi che tutti possano dedicarsi a questo tipo di scoperte suggestive, quasi iniziatiche, oppure c’è bisogno di avere una sensibilità particolare?
Mi piace pensare che la bellezza debba essere un diritto alla portata di tutti, ma è anche vero che l’attitudine alla scoperta e alla ricerca è favorita dalla curiosità, dall’educazione e dalle opportunità di esercitare tale sensibilità. Per questo mi piacerebbe molto che questo libro, che si presta a una facile e rapida lettura, possa rappresentare una scintilla di curiosità per chi non si è ancora mai interessato a questi temi o non ha ancora avuto la fortuna di conoscere questi i luoghi.
Come è stata accolta questa tua opera dai lettori?
Il libro è uscito da poco, ma le osservazioni di chi lo ha già letto mi hanno resa molto felice di averlo scritto. La frase che ricorre più spesso è: “Mi hai fatto venire voglia di andarci (o di tornarci)”. E questo mi porta a pensare che la sincera passione con cui l’ho scritto sia stata percepita.