Sottolineo con due righe di nero la parola “Addio”. Fermo la penna, lascio il punto e non tiro su la linea esclamativa. Il punto esclamativo è più da chi si lancia sotto un treno, o da pistola carica e proiettile nel cranio. Il punto no, il punto è mio, è una fine senza botto.
Guardo sul soffitto la chiazza d’umidità, in alto a destra. Mi volto, verso due dita di whisky nel bicchiere sul comodino e mi ributto sul letto. Poi allungo la mano e bevo.
I muscoli si distendono, aggiungo un dito di whisky al bicchiere, funziona sempre il whisky, il braccio si muove da solo. È un whisky scozzese, torbato. Ci versavo anche una goccia d’acqua per aprirlo, prima, per sprigionare gli aromi. Ora non serve, non mi importa.
Sento scivolare le palpebre, le sento solleticare l’occhio. Sapevo sarei morto così, e sapevo avrei campato sperando di non morire così, certo non sarei morto così. Ma si sa sempre verso cosa si va, da un punto lo sai, scelta dopo scelta, lo sai è lì che lo vedi che se ti prende un infarto o un cancro, lo sai.
E io l’ho sempre saputo. Solo che ora le palpebre pesano, pesano da una vita ma ora pesano che gli occhi si chiudono e vedo le mie figlie e vedo lo spreco. Ho imparato una cosa. Qualche anno fa. Che io spreco. Spreco il presente per girarci intorno. Allungo il braccio, bevo, e prendo le pillole sul comodino. Spreco il presente, da sempre. Bevo altro whisky. Mi strofino il viso. Consumo le persone e spreco e lo sapevo da giovane e pure da meno giovane. Niente. Non sento niente. E gli occhi pesano, che è l’unica cosa che sento e i muscoli sono caldi, intorpiditi. E non mi oppongo e credo mi addormenterò.
Allungo la mano, tasto il comodino, stringo il vasetto di pillole lo avvicino alla bocca, asciutta, la apro e mando giù 8, 10, 15 pillole le prendo tutte. La stanza intorno è sfocata, nessuna foto, intravedo la cassettiera con dentro i miei vestiti, un quadro di un albero, un piccolo specchio e la porta chiusa. Poi vedo buio, nero, nessuna immagine prima di addormentarmi.
Il suono di denti che sfregano gli uni sugli altri è riconoscibile all’istante. Apro gli occhi. Devo essermi addormentato, sì mi ero addormentato. Non avrei voluto svegliarmi. Non posso essermi svegliato. Le pillole. Di nuovo il digrignare. È un suono di denti sottili e appuntiti. Silenzio. Devo essermelo immaginato. Mi gratto la faccia, il dito di whisky è ancora immobile nel bicchiere, credevo di averlo bevuto. Allungo il braccio per mandarlo giù tutto, le mie figlie chissà dove sono. Sento bussare. Il rumore di un bastone picchietta il parquet del mio corridoio.
La donna di servizio non può essere, non ha più le chiavi, è notte poi. E poi se ne è andata via un anno fa, non ha un bastone, non torna di notte da me, mi avrebbe chiamato, da me tornano le mie figlie e le mie ex mogli ma negli incubi, credo di non vederle da più di due anni. Le mie figlie, le mie figlie forse non vengono qui da una vita, mi gira la testa.
Toc. Toc. Toc.
Mi alzo seduto sul letto, socchiudo gli occhi per sentire meglio. Silenzio.
Ritiro la mano dal bicchiere, piano.
Scendo dal letto. A ogni passo le assi intrecciate del parquet schioccano. Devo fare piano, piano, penso. Rallento, mando avanti un piede poi lo faccio raggiungere dall’altro. Sento il mio respiro in affanno, mi avvicino alla porta. La apro, ho i muscoli tesi per far piano, ma di cosa ho paura, magari è un assassino o un ladro che spaventato mi rompe la testa.
I cardini della porta cigolano. Mi fermo. Silenzio. Apro un poco di più la porta.
Mi affaccio, fa più freddo in corridoio. L’alito pesante, caldo di alcol crea uno sbuffo a forma di cuore dalla mia bocca. Destra, sinistra. Buio, silenzio. Passo indietro. Accosto la porta e la chiudo. Ritorno verso il letto.
Incrocio la mia faccia nel piccolo specchio appeso sul muro davanti a me. Direi che dimostro una decina di anni di meno dei settantadue che ho.
Mi tocco il petto. Come dice il mio cardiologo di quel soffio che proprio non gli piace, non devo bere con questo affaticamento al cuore. Andasse al diavolo, il medico. Sono i pesi che porto, per tutto l’odio per il dolore per la rabbia. Gliel’ho spiegato chiaro. Un dolore alla volta, uno solo alla volta, per ogni scelta violenta verso le persone che ho amato, e il cuore si è gonfiato. Un po’ alla volta. Aveva ragione quella psicologa, quella che poi ho mollato alla fine, quella che mi diceva, così lei non si salva.
Tossisco. Spingo il petto. Mi sdraio.
Un oggetto affilato, così mi sembra dal suono, stride sul legno della porta, poi su poi giù e poi si ferma. Rido. Guardo il comodino, prendo la bottiglia, è lontana e per prenderla cade a terra. Scendo dal letto, la bottiglia si è rotta senza far rumore. Il whisky si riversa e io mi butto a terra e con la bocca piccola e le labbra unite cerco di succhiarlo dal pavimento.
La gola mi va in fiamme, un vetro mi taglia la guancia, me ne accorgo per via del whisky che sa di sangue. La stanza è opaca, sfumata, alzo poco la testa. Qualche secondo. Mi serve qualche secondo. Nessun rumore. Niente più. Sono io. Lecco a terra. Ora è il sangue che sa di whisky. Strofino la lingua sul palato. Mi alzo di nuovo ma cado a terra. Ho il cuore che spinge sul petto. Striscio le mani a terra, il torace brucia fino al braccio che adesso formicola. Sento freddo, strano; con tutto l’alcol che ho in corpo. È dalla porta, dalla fessura sotto, vicino al pavimento, che entra il freddo. I rumori sono cessati e il freddo sembra respirare da sotto la porta fino a me. Freddo che passa sotto al letto. Struscio le mani a terra. Da lì sotto è andato via, è dentro ora. Ho fredde le ossa, il braccio tira, il petto è gelido, ora punge e si squarcia, lo sento aprirsi il cuore.
Mi cerco di nuovo nello specchio alzando solo la testa. È troppo in alto lo so, ma volevo vedermi. Non mi riesco a vedere, non ho più tempo la testa pesa, cade sul pavimento senza animo senza resistenza, sbatte e il whisky rossastro schizza tutto intorno.