La preghiera di Toto

Mi guardo, dall’alto, in mezzo a tutto quel sangue rappreso mentre gli avvoltoi stanno ancora terminando il loro pasto e il mio assassino pulisce con accuratezza il suo macete.

Questo brano è tratto da un romanzo in scrittura a Manuela Calistri sta lavorando durante il percorso “Diventa uno scrittore”.

Mi guardo, dall’alto, in mezzo a tutto quel sangue rappreso mentre gli avvoltoi stanno ancora terminando il loro pasto e il mio assassino pulisce con accuratezza il suo macete.

Nonostante lo scempio, la carne tagliata a brandelli dai colpi inferti e dagli artigli di quegli uccellacci necrofori, il mio corpo mostra ancora il vigore dei giovani muscoli… ero allenato e forte, ma non abbastanza.

Forse mi è mancata la ferocia.

Avrei dovuto saperlo che sarebbe finita così fin da quel giorno in cui mio padre, alla nascita del mio ottavo fratello, mi disse:

“È ora che vai per la tua strada, trovati un lavoro onesto e che ti dia soddisfazione, tira fuori la tua forza, perché da oggi ne avrai bisogno”.

Avevo solo dieci anni, non sapevo nulla della vita fuori dal villaggio di capanne che, fino ad allora, era stato tutto il mio mondo.

Partii la sera stessa per la città di Entebbe; ne avevo solo sentito parlare.

Mia madre mi aveva salutato con un bacio sulla fronte, null’altro.

La strada, larga e sconnessa, era asfaltata solo a tratti e trafficata principalmente da grandi camion rumorosi che alzavano polvere e scagliavano sui lati piccoli sassolini taglienti; mi misi sul lato destro e cominciai a camminare, sempre tra l’erba alta e la sterpaglia che la costeggiava.

“Vai in città?” mi chiese un uomo che si accostò in sella ad una bella moto, era un modello Guzzi, rossa.

“Credo di sì”

“Meglio se decidi in fretta, fra poco sarà buio”; indossava una divisa militare e berretto in stoffa con la visiera.

“Ci vado”

“Se vuoi un passaggio, c’è giusto il posto per un piccolo uomo” e si voltò guardando il retro del sedile della moto.

“Allora? Cosa vuoi fare?” insistette.

“Ok” risposi con un filo di voce; non avevo paura, dovevo essere coraggioso.

Arrivammo a un campo identico a una base militare, c’erano molte tende, grandi, verdone scuro e illuminate con luce elettrica; vi erano dei posti dove si andava a fare i propri bisogni e l’acqua era abbondantemente raccolta in grandi taniche di plastica con un rubinetto sul fondo:

“Si può bere ogni volta che vuoi” disse quell’uomo.

Lo guardai sgranando gli occhi, non mi sembrava vero.

“Io sono Makuti” disse.

“Io sono Toto”.

Mi diede una coperta e mi indicò un bivacco fatto di sacchi di iuta, pieni d’erba secca, dove avrei potuto passare quella notte.

Mi addormentai solo dopo molte ore e, in preda all’angoscia, sognai mio padre.

Furono i rumori dei pick-up a svegliarmi da quel sonno intenso, passavano nel campo avanti e indietro mentre, Makuti, con il sigaro in bocca e la pistola nel fondino della cintura, dava indicazioni agli autisti, c’era fermento.

“Hai fame?” chiese quando mi vide in piedi.

“Sì”

Fece un cenno e in pochi minuti arrivó un ragazzo, sempre in divisa militare, mi lanciò del pane e mise a terra una ciotola di alluminio con del porridge caldo e un bicchiere di latte fresco; quel pasto fu delizioso.

“Hai freddo?” chiese di nuovo Makuti mentre sventolava la mano a destra e sinistra; stava dirigendo le operazioni di carico e scarico.

“Sì”

“Ehi tu!” disse a un altro ragazzo in divisa militare “prendi un’uniforme per Toto, adesso è uno dei nostri!”

Si avvicinò e poggió la sua mano sulla mia spalla; poi con la bocca piena del fumo di quel sigaro africano, si accostò al mio orecchio:

“Ci penserò io a te, avrai tutto ciò che vuoi e starai bene, niente più lavori nei campi, lunghe code al pozzo per l’acqua, niente più bestie da accudire… ora io penso a te e, tu, mi darai una mano nel mio campo… starai bene… così fanno i veri uomini, si aiutano a vicenda”.

Indossai la divisa militare e mi avviai verso un grande gazebo dove, da lontano, udivo alcune voci ripetere assieme una cantilena, come una preghiera:

“Sarò forte” dicevano all’unisono “sarò coraggioso, nulla mi potrà fermare, nemmeno la morte”

“Sarò forte” ripetevano ancora “sarò coraggioso, ucciderò il nemico e sarò un grande combattente”.

Mi avvicinai e vidi decine di bambini, come me, erano uno a fianco all’altro e recitavano quelle strofe.

Qualcuno si accorse che li stavo spiando e mi fece cenno con le mani di avvicinarmi, mi prese per un braccio e mi infilò in mezzo a loro:

“Tu non ripeti?” disse, dandomi un colpetto con il gomito,

“Ora sei uno di noi, ti conviene adeguarti” disse un altro mentre, con la mano, mi schiacciava le guance.

Cominciai a pregare con loro.

Avevo trovato un lavoro, mi sentivo bene e protetto, mio padre ne sarebbe stato fiero.

Avevo abiti, cibo, un posto dove stare e amici.

In fondo mio padre, era questo che mi aveva chiesto, di essere coraggioso, di essere forte, di non avere paura.

I giorni cominciarono a passare e io rimasi chiuso in quel campo per quasi un anno.

Al principio Makuti mi assegnò alla cucina e per molti mesi fui l’aiuto cuoco: pelavo le patate e preparavo la verdura tagliata; poi cominciai a disossare la carne delle bestie finché, alla fine, riuscivo anche ad ammazzarle da solo:

piccole scimmie e galline, niente di che, ma ne ero fiero e ormai, potevo tollerare anche il sangue scuro e denso che ne usciva dalle interiora.

Ogni sera recitavo la preghiera con i miei compagni, durava circa mezz’ora, ogni sera, per ogni giorno dell’anno:

“Sarò forte” ripetevo con loro “sarò coraggioso, ucciderò il nemico e sarò un grande combattente”.

“Sei in gamba!” mi disse un giorno Makuti.

Il giorno seguente mi assegnò al magazzino e dopo alcuni mesi divenni dispensiere; mi occupavo di dividere le casse in arrivo, stoccarle nella grande tenda marrone e catalogarle in base alla merce e alla destinazione. Alcune casse contenevano armi, piccole mitragliatrici, a volte pistole.

Il mio compito era controllare che fossero armate correttamente, che non mancassero pezzi di assembramento.

“Sei davvero forte!” mi disse Makuti “Credo tu sia pronto per occuparti anche del collaudo”.

Mi portò sul retro della tenda e mi diede in mano una pistola:

“Da domani dovrai assicurati che ogni pistola funzioni correttamente, verrai qui e sparerai un colpo, verso quell’albero laggiù, le munizioni sai dove sono”.

Cominciai a sparare, ogni giorno testavo almeno cento pistole e, nel tempo, divenni bravo, avevo una mira infallibile e l’idea di gestire così bene un’arma, mi faceva sentire potente, forte, indistruttibile.

Presto passai alle mitragliatrici e poi addirittura a dei piccoli bazuca che, quando cacciavano fuori quel siluro, facevano un baccano infernale e nel tempo avevano distrutto il mio albero bersaglio.

Ero ormai esperto, sapevo gestire le armi molto bene e nel campo erano tutti ampiamente soddisfatti del mio lavoro.

“Hai dimostrato costanza e abilità” mi disse un giorno Makuti “ora se vuoi, puoi passare a qualcosa di più divertente, potrai uccidere i maiali con la pistola, è facile, vieni, ti mostro come devi fare”.

Seguimmo il piccolo sentiero dietro al campo, all’interno del bosco, portava al recinto delle bestie; Makuti prese un maiale e lo mise in un altro recinto, piccolissimo, dove non poteva muoversi.

Era uno spazio studiato, della misura giusta, per potercelo incastrare e immobilizzarlo.

Mettere quel maiale, là dentro, fu la cosa più complicata, la bestia si dimenava e faceva quegli urli sguaiati che mi penetravano dentro.

“Vedi” disse Makuti mentre trascinava per le orecchie il grosso maiale e lo spingeva a calci in quella gabbia a cielo aperto “la parte più complicata arriva ora, perché queste bestiacce sono forti e testarde”.

Ma Makuti era altrettanto muscoloso e forte, sputò per terra il tabacco che masticava e ebbe subito la meglio su quel maiale imbestialito.

Lo guardavo con ammirazione, la sua potenza era quasi soprannaturale e la sua determinazione infallibile; portava sempre a termine ogni azione che compiva.

“Una volta che l’hai ficcato qui dentro” continuò “lo devi guardare bene negli occhi e quando smette di grugnire significa che è pronto… prendi la pistola e gli spari sopra al muso, così!”

Bum! – e Makuti sparò quel colpo senza esitare e con estrema precisione.

Il botto echeggiò nella foresta, i grossi corvi dal collo bianco volarono via gracchiando e facendo un chiasso insopportabile poi, rimase il silenzio del maiale morto.

“Hai visto?” disse Makuti “senza sofferenza, un colpo veloce e deciso… ora prova tu, fammi vedere se hai capito”.

Mi passò la pistola ancora calda della sua mano e mi indicò un maiale giovane, più piccolo.

“Prendi quello!”

Mi avvicinai al recinto e lo presi con forza, non volevo fare brutta figura, ma il piccolo maiale era infuriato e sporco di fango, si divincolava e mi scivolò via.

“Se non riesci a mani nude, prendi questo bastone e fagli capire chi comanda”.

Makuti allungò il braccio e mi porse un bastone ancora sporco di sangue.

“Cosa devo fare?”

“Dagli due colpi sulla testa, vedrai che capirà la lezione!”; alzò e abbassò il braccio con prepotenza, si assicurava avessi capito.

“Sarò forte” pregai a voce alta “sarò coraggioso, nulla mi potrà fermare, ucciderò il nemico e sarò un grande combattente”; presi il bastone e, con tutta la mia forza, diedi un paio di colpi sulla testa di quel piccolo maiale che, tramortito, cominciò a barcollare.

“Ecco, l’ho preso!” dissi.

Lo portai velocemente dentro alla gabbia che, per quel piccolo maiale, non era sufficientemente stretta, riusciva ancora a muoversi.

“Ci penso io!” escamò Makuti, saltò dentro, si mise il piccolo maiale fra le gambe e mi guardò:

“Te lo tengo io, spara!… ma stai attento eh… non vorrei trovarmi con un testicolo in meno!”, ghignò.

“Non voglio sparare con te lì dietro”.

“Ti ho detto spara!” urlò “ti conosco bene Toto, non sbaglierai… avanti spara!”.

Presi la mira e sparai un colpo.

Collaudavo armi tutti i giorni, ma quella volta fu diverso.

“Hai visto? Un buco preciso in mezzo agli occhi, ne ero convinto”.

Makuti scavalcò il recinto e mi diede una botta sulla spalla, talmente forte, che mi fece quasi cadere a terra.

“Vieni piccolo uomo, è ora che anche tu cominci davvero a far parte della squadra dei combattenti”.

Mi sentii al settimo cielo, non avevo mai provato un’emozione tanto soddisfacente e appagante come quella, Makuti si fidava di me, mi voleva bene e io, finalmente, sarei salito su uno di quei pick-up.

Avevo dimostrato di essere forte, di non avere paura.

La sera stessa, durante la preghiera, si presentò Makuti, mi chiamò vicino a lui e disse:

“Diamo il benvenuto a Toto, perché da oggi sarà un uomo!”.

Rimasero tutti in silenzio poi, alzarono il braccio destro verso l’alto e battendo i piedi a terra, cominciarono a incitare:

“Oh oh oh” e ancora “oh oh oh…”

Le voci si sovrapponevano, fremendo con il corpo, era emozionante e tremendo allo stesso tempo ma, fu strano, nessuno mi abbracciò per quel traguardo raggiunto.

La mattina seguente partii con il pick-up di Makuti, insieme ad altri otto compagni bambini e quattro soldati esperti.

Ognuno di noi possedeva un’arma e io avevo finalmente la mia pistola, quella che Makuti mi aveva regalato la mattina stessa.

Non sapevo dove stessimo andando.

Arrivammo a un villaggio, molto simile a quello dove ero cresciuto, scendemmo di corsa e il caposquadra ci ordinò di cercare gli abitanti.

Non trovammo nessuno.

Makuti prese un macete, lo piantò sul terreno, al centro del piccolo villaggio fatto di poche decine di capanne e urlò:

“Non sono venuto fino qui per nulla… avete sentito?”

La voce profonda e potente echeggiò nel silenzio.

Un pianto di bambino si udì all’improvviso, era rannicchiato in un minuscolo buco, scavato tra i fasci di carbone e di erba, aveva poco più di 4 anni.

Makuti si avvicinò, lo guardò da vicino e lo prese per mano:

“Non devi piangere, da oggi penso io a te”, poi con un gesto irruento lo lanciò sul pick-up; cadde proprio davanti a me, inciampando su una fune arrotolata; lo presi per una gamba e lo misi a sedere con forza, poi d’istinto lo coprii, fin sopra al volto, con una coperta sporca di grasso.

“Andiamo!” urlò Makuti mentre estraeva dal taschino il suo sigaro.

Vidi uscire da una capanna una donna che, correndo con le mani alzate verso il cielo, urlava e piangeva implorando per la restituzione di suo figlio.

Si buttò a terra disperata, il copricapo colorato le cadde e uscirono i capelli arruffati e sporchi; in preda agli spasmi per il dolore, cominciò a rantolare, urlando il nome di quel bambino e contorcendosi su sé stessa.

Il pick-up si fermò di colpo e io sbattei le costole nel fucile del mio compagno, sentii un male cane; il bimbo, sotto la coperta, continuava a piangere senza tregua.

Il pick-up ingranò la retromarcia, accelerò quanto bastava e calpestò la donna, la schiacciò sotto le ruote chiodate, facendoci sobbalzare, le passò sopra due volte, con le ruote posteriori e poi anteriori, prima andando all’indietro e poi di nuovo, dopo aver ingranato la prima, tra le urla strazianti di quella poveretta; morì subito dopo.

Io ero sul cassone e sentii le ossa di quella donna rompersi, il fiato spezzarsi, la sentii morire e mentre con tutta la mia forza trattenevo le lacrime e la voglia di scendere per soccorrerla, pensai che grazie a quella coperta, forse, suo figlio, non avrebbe ricordato quel giorno.

Mi venne affidato Giodi, il piccolo bambino a cui avevamo ucciso la madre, affinché lo istruissi, lo facessi crescere, affinchè pregasse ogni sera con noi e diventasse un altro prezioso soldato.

Giodi era sempre al mio fianco, come un fratellino e, seppur cercassi di tenere le distanze, sapendo di poterlo perdere da un giorno all’altro, non potevo fare a meno di provare un senso di protezione nei suoi confronti, era come se gli dovessi qualcosa, se dovessi farmi perdonare per la sofferenza che gli avevamo inferto quel giorno.

Giodi era sveglio e intelligente, anche troppo, e più cresceva più diventava ribelle, faceva domande non gradite e, Makuti, lo teneva sotto controllo; non gli andava a genio quel piccolo soldato insolente e curioso.

“Te ne devi liberare” mi disse un giorno Makuti, scendendo dal pick-up e guardando Giodi che stava giocando con un coltello, imitava una lotta corpo a corpo.

“Non puoi chiedermelo” risposi seccato “ho lavorato troppo e duramente per farlo diventare un soldato e non butterò via una risorsa che può esserci utile”.

“Ho detto che te ne devi liberare, fallo! Altrimenti lo farò io e per lui sarà anche peggio!”; il sigaro che aveva in mano gli bruciò alcune dita mentre cercava di liberarsi dalla mosca che gli ronzava intorno, ma lui, non fece nemmeno una smorfia.

“Lo farò, ma non qui al campo, non voglio che gli altri si spaventino” e voltandomi, alzai lo sguardo, verso le montagne.

“Cerca di tornare per cena, devo parlarti dei programmi per domani”.

Poi Makuti si avviò con passo deciso verso la sua tenda dove, una bella ragazza giovane e attraente, lo aspettava per soddisfare i suoi desideri.

Chiamai Giodi:

“Oggi andiamo su quelle montagne”

“Cosa cerchiamo?” mi chiese lui, curioso come sempre.

“Gorilla”.

Ci avviammo con un pick-up e poi a piedi ci inoltrammo nella foresta umida, nella folta e intricata vegetazione.

Camminammo per quasi due ore, fino a quando, come speravo, sentimmo degli spari.

Avrei ucciso Giodi come il piccolo maiale, un colpo preciso in mezzo alla fronte, senza sofferenza; lui non si sarebbe accorto di nulla e, se per caso mi fosse mancato il coraggio, beh, allora in quel caso, lo avrei lasciato lì con qualche scusa e ci avrebbero pensato loro, gli spietati bracconieri, lo avrebbero trovato e ucciso al posto mio e così, comunque fosse andata, avrei assolto al compito che mi aveva assegnato Makuti.

“Guardami Giodi!” gli dissi.

Lui si voltò, era entusiasta e aveva il viso illuminato dai raggi del sole, non aveva ancora capito, si fidava.

Estrassi la pistola e la puntai contro di lui ma, nemmeno ora dubitava della mia fiducia, mi guardava in estasi, pronto all’azione, pronto ad obbedire ai miei ordini… era ancora fragile e piccolo, era un bambino.

Con tormento, quella preghiera della sera, mi tornò alla mente:

“Sarò forte, sarò coraggioso, nulla mi potrà fermare, nemmeno la morte”;

ma quelle parole, adesso, non avevano più lo stesso gusto.

“Sarò forte” urlai “sarò coraggioso, ucciderò il nemico e sarò un grande combattente”; poi un tremito improvviso fece scuotere le mie gambe, guardai verso l’alto, girai la pistola al cielo e sparai un colpo.

Nella foresta, i bracconieri erano vicini, sparai un altro colpo per accertarmi che avessero individuato la nostra posizione.

Mi voltai verso Giodi, lo guardai strizzando gli occhi come un miope e digrignando i denti della mandibola indurita dall’adrenalina:

“Adesso corri Giodi, vai verso Nord e attraversa la montagna, dall’altra parte troverai il fiume Nilo; percorrilo fino ai villaggi dei pescatori, sul lago Vittoria e lì cerca di nasconderti; non dire a nessuno come ti chiami; trova una nuova famiglia, una nuova madre e vivi la tua vita. Da oggi sei libero”.

“Non capisco Toto, cosa succede?” mi disse in preda al panico.

“Giodi, quello che facciamo è sbagliato, io non ho avuto nessuno a cui chiederlo… a Makuti ci penso io, non devi preoccuparti, adesso vai, stanno arrivando… un giorno ci rincontreremo!” e mi voltai altrove per non assistere alla sua fuga; sapevo che non l’avrei mai più incontrato.

I bracconieri non tardarono ad arrivare, ero nel loro territorio, sulle tracce delle loro prede; prima mi spararono a sangue freddo e poi con il macete mi fecero a pezzi, lasciandomi qui, in un lago di sangue e in pasto agli avvoltoi.

Makuti non poteva sospettare di nulla, quel piano improvvisato era perfetto; mi avrebbe cercato, trovato in queste condizioni e avrebbe creduto che Giodi fosse ormai nelle mani di quei bracconieri, lo avrebbero torturato e poi ucciso, come spesso accadeva con loro; Makuti non avrebbe mai saputo della sua fuga e questa, era la cosa più importante.

Ora che mi guardo, dall’alto, in mezzo a tutto questo sangue rappreso; mentre gli avvoltoi stanno ancora terminando il loro pasto e il mio assassino pulisce con accuratezza il suo macete, nonostante lo scempio, la carne tagliata a brandelli dai colpi inferti e dagli artigli di quegli uccellacci necrofori; ora che mi guardo, il mio corpo mostra ancora il vigore di un giovane uomo, appena tredicenne; vedo un ragazzo che finalmente ha combattuto per sé stesso, che dopo tanta sofferenza ha trovato quella forza di cui parlava suo padre e con la stessa determinazione con cui aveva ucciso molte persone, è riuscito a scegliere di essere libero e, di percorrere quella strada verso la città, che tanti anni prima, gli era stato impedito di raggiungere.

Adesso sono sulla strada giusta, sono stato davvero coraggioso e forte, ora non ho più paura.

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