Ci sono degli autori che seguo da molto tempo, perché capaci di una particolare sensibilità, ma anche della capacità di trasformare le loro visioni private in immagini che catturano l’attenzione del lettore, senza per questo proporre vezzi alla moda o storie scontate. Per chi – come me – ne ha visti tanti lavorare sulla propria scrittura, ci sono poi degli autori che sono anche persone che rappresentano incontri felici, come Ester Arena, che dopo aver pubblicato un romanzo (Il piano cartesiano dell’amore, uscito quattro anni fa, nel 2018) è appena arrivata in libreria con una raccolta di racconti dal titolo Ground Zero (Ensemble 2022). Devo dire che è proprio vedendola scrivere racconti in tanti laboratori di scrittura creativa prima, e dopo nelle sue partecipazioni a concorsi narrativi con meritati apprezzamenti, che ho saputo apprezzarne la bravura nelle storie brevi. E penso che la apprezzerete anche voi lettori, se vi andrà di leggere il suo libro. Intanto io le faccio qualche domanda per la nostra intervista della domenica.
Ground Zero è un titolo che rimanda subito all’11 settembre del 2001, sono passati oltre vent’anni, perché ricordarlo ora?
Dell’attentato dell’11 settembre 2001 ho un ricordo ben preciso. Stavo rientrando a Roma da Tivoli e, prima di tornare a casa, dovevo passare dal pediatra. Fu proprio nel suo studio che vidi le prime immagini degli aerei, delle torri, degli aerei nelle torri, delle torri che crollavano avvolte da una nube di polvere. Ciò che avevo ascoltato poco prima alla radio, non volendo crederci, era vero. Qualche tempo dopo, vidi un docu-film. Ripercorreva le fasi dell’attentato e del dopo. Tutto questo, senza sonoro. Eppure, io sentii chiaramente i rumori, le urla, le sirene, come se fossi lì, tra le macerie, tra i volti disperati e impolverati, alla ricerca di vita tra tanta morte. Quel silenzio assordante, associato alle immagini, fu un’esperienza di angoscia che non avevo mai provato e che non sono riuscita a dimenticare. Quelle sensazioni, anni dopo, hanno ispirato il racconto Ground Zero, che dà il titolo alla raccolta.
Con la complicità dei media nella diffusione delle notizie, gli orrori, vicini e lontani, della guerra, della fame, della violenza, degli stravolgimenti della natura, accompagnano il nostro quotidiano. Ogni nuovo evento porta con sé il ricordo di ciò che è accaduto prima e il monito di ciò che potrebbe ancora accadere, eppure impariamo poco o nulla. Il dolore che ci attraversa al momento è reale, ma la memoria è labile e la buona volontà per porre rimedio è scarsa, se non assente. Nonostante ciò, la vita va avanti, ripartendo proprio dalle macerie. Ground Zero evoca in tutti noi l’evento del 2001. In realtà è, per definizione e senza limiti temporali, l’epicentro di una distruzione. Per questo ho voluto che la mia raccolta si intitolasse così. Credo che in ogni giorno ci sia stato e ci sia un 11 settembre in qualche parte del mondo, così come credo, senza sminuire il valore della tragedia originaria, che ognuno di noi possa aver vissuto un suo personale 11 settembre.
Vorrei fare un’intervista diversa dal solito, ti chiedo una frase per ogni racconto che si ritrova nell’antologia. Partiamo da “Menu degustazione”.
Le monetine tintinnano allegramente, mentre le metto nel piattino d’argento. Sono come i miei sorrisi spicci, quelli che uso per dimostrare che va tutto bene, anche quando non è vero.
“Illusoria speranza”?
Ecco, ora alza le braccia, distende le mani, allarga le dita. Un abbraccio o l’abbandono di una presa: in uno stesso gesto, un esito differente.
“La polvere”?
Non è vero, non ci credo. Le cose non succedono da sole, tu lo sai, me lo dici sempre. Quindi, che storia è, papà?
“Verme”?
La necessità di sfuggire alla sua presa e al suo controllo in quei momenti diventava una questione di sopravvivenza, che cercavo di mascherare per non farla insospettire di più̀…
“La meraviglia che vorrei”?
Il mistero insolubile della morte resta uno strappo che non si può ricucire e non c’è toppa che riesca a camuffare il vuoto dell’assenza fisica.
“Virginia”?
In quell’istante, in mente e addosso le erano tornati l’altra mano, il fiato, l’odore, la sua paura.
“Il collaudatore”?
Il cono di luce inonda il mio buio e ne scandaglia gli angoli più nascosti fino a rivelare i frammenti sottili della mia memoria che pensavo perduti.
“Una mano sola”?
Parlava come se il loro amore fosse finito tutto lì, in quell’appendice deforme che stavo per portargli via.
“Il salto di Clara”?
Papà le ha insegnato che non bisogna mai far vedere la propria debolezza, perché́ c’è chi se ne approfitta.
“Autopsia di un amore”?
Voglio guardare dentro di te. Voglio cercare ancora di capire, di capirti, per poter smettere di amarti e odiarti insieme.
“La cena per Angela”?
«Eh? Ah, già̀. Trent’anni di matrimonio. Praticamente quello di marito è l’unico impiego che ancora non hai perso».
“Pesci fuori dall’acqua”?
L’assenza di respiro è legata al ricordo dell’assenza di Laura. Così, a soffocarmi, torna prepotente anche il desiderio di lei.
“Ricomincio”?
È inutile che ci provi, tanto nemmeno oggi ce la fai.
“Ground zero”?
Vedi lui, vedi te, vedi voi. Poi, nel disastro inatteso, vedi voi crollare e trasformarvi in polvere e macerie.
“Il grande magnete”?
Sì, paura, quella fottutissima paura che poi avevo nascosto a tutti per non darle forza.
“Sara sarà”?
Le parole crociate mi somigliano. Abbiamo questa sorte in comune, sono costrette anche loro in uno spazio che le priva della capacità di volare, di unirsi ad altre.
Secondo te c’è un tratto che li unisce tutti? C’era qualcosa che volevi dire in modo chiaro e forte con queste storie?
Il filo, che unisce tutti i racconti, è la presenza di un evento che, agendo da detonatore, ha mandato in frantumi una vita o un suo attimo, che prima sembravano perfetti.
La sofferenza dei miei personaggi, che hanno età e sesso differenti, non è diversa da quella che, nella realtà, può essere vissuta da chiunque.
La perdita della natura di soggetti di fantasia permette al lettore di avvicinarsi ai protagonisti, creando un legame empatico.
Nel pensare “È come me. Io so costa sta vivendo.”, comincia l’esame critico dell’idea, che spesso pervade la mente paralizzandola e svuotandola di ogni desiderio, di esser l’unico bersaglio senza scampo degli eventi avversi della vita.
All’inizio della raccolta ho inserito la poesia del poeta americano Walt Whitman Ahimè! Ah vita!, che ricorda come, nonostante tutto ciò che di negativo possa accadere, il senso della vita sia racchiuso nella vita stessa e nell’esistenza.
È questa la chiave di svolta. Il pensiero che dovrebbe accompagnarci sempre.
Il mio messaggio, se così vogliamo chiamarlo, è che non ci si deve mai arrendere. Che la vita va amata anche nei suoi momenti avversi. Perché, dopo l’elaborazione dello smarrimento e del dolore, possano essere trasformati in occasioni per un nuovo senso dell’esistenza. Magari più vero.
Mi piacerebbe, quindi, che la lettura dei momenti bui, narrati nei racconti, possa diventare uno stimolo per iniziare a scavare tra le macerie della vita reale e, nella ricerca di ciò che è rimasto dopo la distruzione, trovare il frammento da cui possa avere origine la rinascita.