“Dove arrivano le acque” di Anja Kampmann (Keller)

Un romanzo che ricorda il piacere di un pezzo di cioccolato che si scioglie sotto la lingua, insieme a quella piccola punta di dolore che accompagna le cose belle

Il percorso accidentato di un uomo che cerca sé stesso a volte in maniera inconsapevole. Questo è il viaggio di Waclaw, operaio sulle piattaforme petrolifere di origine polacca, ma cresciuto in un’asfittica e buia cittadina carbonifera tedesca, che inizia con l’evento luttuoso della morte in mare, (imprudenza? scelta consapevole?) dell’amico Mátyás. Da questo momento Waclaw, ripercorre, in un’ondeggiante trasposizione tra passato e presente della sua vita, i momenti che sono stati nodi sciolti, che lo hanno portato a essere la persona che è. Milena, la sua compagna, che aspettava il loro bambino mai nato, la sorellastra di Mátyás, che vive sospesa nell’attesa di novità che non ci sono, in un paesino inghiottito dalla nebbia nella sperduta campagna ungherese, le donne colorate e provocanti del Cairo, una città che si apre come una bocca enorme, il caos di macchine nell’accecante luce diurna e fitta di luci di notte, i lampioni blu che fanno a gara a nascondere quello che qualcuno vuole scoprire. Attraversa il Mediterraneo Waclaw, passando per la Spagna e l’Italia, dormendo spesso per terra, mangiando quando ha i soldi, ricordando e vivendo al contempo, mai troppo lontano dai momenti condivisi con Mátyás, nella loro rivendicazione di libertà, e mai troppo immerso nel suo presente, che sembra, a tratti, la prosecuzione di un sogno.

Come capita a Ulisse, non sempre, quando bussa alle porte viene accolto e riconosciuto, e lui, non privo di colpe da espiare, come l’eroe greco, cerca di trovare un motivo al nostro girare intorno a vuoto che delimita la quotidianità, un motivo reale che ci spinge a lasciare il nido spinti dal bisogno rauco e acre di soldi per sopravvivere. Il suo peregrinare lo spinge a tornare nel luogo in cui è vissuto da ragazzo, alla luce che si consuma nel Nord Europa, nella Germania al confine con la Polonia, fino a diventare un esile filo giallo color limone nelle mattine sature di nuvole da neve che annunciano l’inverno.

Waclaw si dà la colpa di aver lasciato Milena, non senza rimpianto, ma ha compiuto uno strappo andandosene, che per lei equivale a un abbandono, di non aver protetto Mátyás, fragile e troppo tenero per sopportare la solitudine e la durezza del lavoro sulla piattaforma. Il suo viaggio, fatto con pochissimi oggetti, quelli contenuti in una sacca sdrucita, che lui continua a disseminare in giro e a perdere, è il tentativo di scoprire cosa sia l’umanità vera, quella nuda, fatta di corpi disallineati e bisognosi, senza sovrastrutture. Questo romanzo è un labirinto che incrocia strade fatte di parole, e le parole sono fatte per consolarti e proteggerti, con la loro luminosa e dolente tristezza, il loro pulsare, poetico, vivido, che ti culla durante la notte, quando hai gli occhi aperti e tenti di scacciare i demoni (solitudine, abbandono, colpa, tristezza, paura della morte) dalle sponde del tuo letto. Un lembo di lenzuolo umido di saliva a ricordarti che forse, ogni verità va cercata nella grazia del tempo donato. E che la salvezza puoi trovarla nel sorriso umido e assonnato di chi ti offre il primo caffè caldo della giornata. Quando lo leggerete le parole, la loro armonia perfetta, vi ricorderà un canto perfettamente intonato, il piacere di un pezzo di cioccolato che si scioglie piano sotto la lingua, insieme a quella piccola punta di dolore che accompagna le cose belle, perché, mentre assaporiamo e ascoltiamo, rapiti ed estatici, sappiamo che finiranno.

Oltre la frontiera polacca, le roulotte sotto i ponti dell’autostrada, tanti cartelli offrivano amore a pagamento, Quelli davanti a lui mettevano la freccia, nella nebbia, non sapevano che avrebbero trovato scarpe di plastica di scarso valore, che le donne, per un attimo si spaventavano quando qualcuno, anche solo per scherzo, le abbagliava con i fari? Quanto smarrimento c’era in quelle luce crepuscolare?

Tutte quelle porte chiuse, le cartine strappate e sguardi che dicevano, il mio cuore non ce la fa più. Giorni in cui solo i più giovani ricevono carezze. Sanno quanto crepita questa carta in cellophane? Che può essere il contrario della tenerezza?

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Marilena Votta

Marilena Votta nasce a Napoli e trascorre la sua infanzia e adolescenza in un luogo fatto di sole accecante e ombre altrettanto tenaci. Ha pubblicato le raccolte di racconti Equilibri sospesi, La ragazza di miele e altre storie (Progetto Cultura, 2016) e Diastema (Ensemble, 2020), e la raccolta di poesie Estate (Progetto Cultura, 2019). Il suo racconto “Fratello maggiore fratello minore” è stato pubblicato nell’antologia “Roma-Tuscolana”. Alcuni suoi racconti sono disponibili su varie riviste on line e cartacee. Nell’ottobre 2021 pubblica il suo primo romanzo, Stati di desiderio, con D editore. Del suo rapporto con la scrittura asserisce, convinta, che è il suo posto nel mondo. Scrive recensioni di libri che ama per "Dentro la lampada", la rivista della scuola Genius.

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