Nel Talmud c’è una storia di 4 persone che entrano nel Paradiso terrestre, ma solo uno esce vivo. La storia si appiglia alle illusioni e alle immagini fallaci che proiettiamo, quando desideriamo qualcosa e non siamo capaci di vedere oltre quello che vogliamo restando, alla fine, delusi.
In questo libro le storie sono tre (la quarta ho pensato che fosse quella che il lettore scrive idealmente con la sua vita), due uomini e una donna, che, in maniera casuale, si sfiorano, conoscendosi e poi, un piccolo ruolo uno nella vita dell’altro, proseguono.
Il primo, Omri, è un concertista che si sta prendendo una pausa dal lavoro, esce da un divorzio pesante, ed è preda di una struggente nostalgia per la figlia Liori, soffrendo per non poter più avere accesso alla quotidianità semplice e scontata che avevano quando vivevano nella stessa casa. In fondo le case sono spazi che possono risultare soffocanti o rimbombanti con il silenzio e la mancanza, se non sono abitate da gente che è disposta a ridere insieme. Allora Omri si trova a La Paz, in un tipico tempo sospeso, quando incontra una giovane coppia israeliana in luna di miele, Mor e Ronen, e con la gentilezza indolente e la curiosità che ti prende quando parli la tua lingua in un paese straniero li accompagna in gelateria. Nella coppia ci sono piccole discrepanze, lei, Mor, sorride come se stesse cercando di nascondere il nervosismo, e lui, Ronen è insolitamente taciturno.
Tutto si addensa quando, tornato in Israele, Omri legge un breve trafiletto sul giornale che annuncia la morte di Ronen in un incidente. Preso da uno strano impulso si presenta a casa della famiglia del morto, per la Shivà, (i 7 giorni di lutto stretto, in cui ci si stracciano le vesti, e si coprono gli specchi), e lì, in maniera imprevedibile, ascolterà la storia di Mor. Chi è questa ragazza, sfuggita da una famiglia di ebrei osservanti da ragazzina, e per questo, cancellata dalla sua famiglia di origine? E lo strano, impensabile legame tra loro due, cos’è? In un continuo rimando di specchi e di riflessioni Eshkol Nevo racconta quanto le stesse storie possano essere diverse, a seconda del punto di vista di chi racconta e di chi ascolta.
Allo stesso modo la seconda storia, dove il protagonista è un famoso internista, da poco vedovo e con due figli ormai adulti e immersi nella loro vita, sente un profondo affetto, verso una specializzanda, Liat. Quello che li accomuna è la solitudine e il senso, profondo, a volte, di impotenza, che capita ai medici, di fronte alle malattie. Liat è giovane, pronta a farsi ferire da un collega dal quale, inascoltato, il professor Caro cerca di metterla in guardia. Uno sguardo paterno visto che Liat è orfana di un padre morto troppo giovane e al quale lei era legatissima. Almeno, questo è quello che lui dice a sé stesso.
La terza storia è tutta sul perdono e il cambiamento. Un uomo, Ofer, cammina, mano nella mano con la moglie in un frutteto, e sentendo una musica entra in quel frutteto, e come nelle favole, ne viene inghiottito, nel senso che scompare. Viene chiamata la polizia, si indaga sulla vita dello scomparso, sul suo blog, dove con uno pseudonimo, pubblicava racconti da 120 parole, che possono essere indizi, non dissimili dalle briciole che Pollicino lascia per tornare a casa. In fondo le parole sono azioni. I figli della coppia, Matan, il ragazzo, e Ori, la ragazza, vivono in maniera diversa la scomparsa del padre. Matan si scaglia contro la madre mentre Ori è decisa ad aiutarla nella ricerca. Quello che succede, è che spesso, quando si cerca qualcuno si finisce con il trovare anche altro, o altri, o di nuovo, l’Amore che resta, quando tutto cambia.
L’autore, che amo visceralmente, da quando ho letto il suo primo libro pubblicato in Italia, ha scritto questo romanzo nel periodo buio del lock down più forte, quando ogni contatto umano, anche casuale, poteva essere mortale, e le nostre certezze sono crollate dimostrandoci quanto siamo transitori e quanto, in fondo, le incombenze e la fretta e gli affanni scompaiano di fronte al fatto che solo riconoscendo le nostre debolezze e aiutandoci, senza giudizi, forse, possiamo sopravvivere. Israele è un paese in guerra in un tempo di pace, ma non è detto che questa condizione non capiti anche nel nostro Occidente. Leggendo questo libro sono entrata nel paese degli specchi e ho visto me stessa. La ragazza che ha cambiato vita e pelle, resistendo agli assalti del mondo che la voleva addomesticare. Ecco, ogni riga ci catapulta nel bisogno straziante che abbiamo di toccare e di essere toccati, con la nostra pelle esposta.
Se cambiare, che sia il mondo. Se peccare, senza sensi di colpa. Se un’onda, che sia verde. Se viaggiare, che sia lontano. Se scarpe che siano comode. Se oltrepassare, che siano confini. Se fare, che sia la pace. Se la pace, che sia adesso. Se siamo rimasti, amiamo. Se c’è tempo, sta per finire. Se ballare, che sia sfrenato. Se è passato, che sia dimenticato. Se prigionieri, scappare. Se recinzione, che sia siepe. Se uomo, che sia donna. Se donna, che sia per favore. Se pensare, che sia fare. Se fare, che sia sbagliare. Se sbagliare, che sia adesso. Se siamo rimasti, amiamo. Se siamo rimasti, amiamo. Se siamo rimasti, amiamo.