Elysa Fazzino è una giornalista che ha al suo attivo una lunga carriera, dopo gli inizi a “Il Corriere di Pavia” e “Radio Londra” della BBC, ha scritto per “Il Secolo XIX”, “Italia Oggi”, “L’Indipendente”, “Il Sole 24 Ore”. Ma è anche una narratrice al suo secondo romanzo. Il primo, Sotto il corniolo (in origine pubblicato con il titolo Le tre amiche), mi aveva colpito per la capacità dell’autrice di ricreare la vicenda umana di Rosa Washington, una governante nera di Charleston, South Carolina, divisa tra l’amore verso il padrone della villa in cui lavora, Ruggero, e la solidarietà con le altre donne di casa. Adesso è da poco uscita con un nuovo romanzo, Caterina e 7 altre (editrice Prova d’autore 2022), che mi sembra altrettanto notevole soprattutto nell’invenzione. Una donna malata di cancro, mentre segue le terapie necessarie per la cura, si ritrova a rivivere (o a immaginare di farlo) le vite di altre donne vissute in epoche lontane e lontanissime da noi. Da un’ominide del Pleistocene a Mary Jo Kopechne, collaboratrice di Robert Kennedy nella campagna presidenziale del 1968. Passando per una donna in Assiria, nell’antica Roma, nella Cina imperiale, ecc. Il tutto in uno stile piano e convincente che lega in un flusso unico un passato (verosimile anche se spesso immaginato per la mancanza di una documentazione sufficiente) e un presente descritto con realismo. Poiché la conosco da diverso tempo, mi è venuta voglia di farle qualche domanda e di presentare ai lettori questo romanzo che – credo – meriti una lettura non superficiale.
Caterina e 7 altre ha vinto un premio per un’opera narrativa inedita scritta da donne. Anche un tuo precedente romanzo ha vinto un premio per la narrativa al femminile. Ti ritrovi nell’immagine di scrittrice di genere? Oppure è solo un caso?
Non è un caso perché, da donna, mi sembra di riuscire a esprimere meglio il punto di vista, le emozioni e il modo di essere delle donne. Ma se scrivo delle donne e sulle donne, lo faccio per empatia e non per scelta ideologica o commerciale. Anche se nel mercato editoriale può servire classificare i libri nei vari generi, preferirei non essere incasellata in un genere letterario e non mi riconosco nella definizione di scrittrice di genere. Il mio primo romanzo non è nato a tavolino, ma sulla spinta di una frase, pronunciata da una donna nera che si stava occupando della vendita di mobili e suppellettili di una casa signorile della Virginia. Lo stimolo che ha portato alla struttura di Shahrazad, titolo di lavoro del romanzo poi pubblicato come Caterina e 7 altre, è la forte impressione suscitata in me da una singolare epigrafe dedicata a una liberta dell’Antica Roma. Gli spunti sono casuali, ma non è un caso che questi spunti mi abbiano colpito più di altri.
Secondo te la condizione femminile è simile in tutte le epoche che hai raccontato in questo libro e nell’altro (Sotto il corniolo, ambientato negli Stati Uniti del Novecento)?
Ringrazio la sorte che mi fa vivere in un’epoca e in una società in cui i diritti delle donne sono riconosciuti, almeno in teoria. Rispondo scusandomi per l’eccessiva semplificazione. In Caterina e 7 altre, soltanto la sciamana del Pleistocene, che immagino vissuta circa 320mila anni fa, fa parte di una società nomade in cui non c’è un chiaro dominio maschile. Sappiamo poco della popolazione, ossessionata dalla fertilità, cui apparteneva la bella di Xiaohe, sepolta 4000 anni orsono in un’enigmatica necropoli nel deserto del nord-ovest della Cina. Le epoche successive tratteggiate nel mio romanzo hanno in comune il patriarcato: l’Assiria del 1200 a.C., la Roma imperiale, la Salerno del Trecento. Alcune donne riescono ad arrivare a posizioni di rilievo, ma la condizione femminile di subalternità fa sì che ne abbiamo perso la memoria. Nemmeno la Rivoluzione francese, nonostante i fermenti libertari e egualitari, riesce ad affermare la parità tra uomo e donna. Poi le lotte per l’emancipazione femminile hanno cominciato a cambiare le cose. Negli anni Sessanta del Novecento, le storture di una società ancora patriarcale emergono tuttavia sia nella storia vera di Mary Jo Kopechne, uccisa nel ’69 in un incidente stradale nell’auto guidata da Ted Kennedy, e nella storia inventata di Rosa Washington, la governante nera protagonista di Sotto il corniolo (titolo originale Le tre amiche), due volte oppressa, come donna e come nera.
La tua protagonista è una malata oncologica, durante la storia si sviluppa anche il racconto della sua terapia. È difficile narrare la malattia?
È doloroso, è come rigirare il coltello nella piaga. Difficile perché ogni giorno bisogna mettersi nello stato d’animo di descrivere procedure mediche invasive e le loro ripercussioni sulla persona malata. Nel caso del cancro, la terapia fa stare male e la guarigione non è certa. È l’inizio di una convivenza con la malattia che cambia profondamente il rapporto con se stessi e con gli altri. Avete mai notato che quando si parla a una persona malata, spesso la si tratta come se fosse diventata stupida? O che se ne parla ai dottori, in sua presenza, come se non ci fosse? Ho considerato anche questi aspetti ed è stato un lavoro psicologico impegnativo, considerando che non sono una specialista. Anche se ho cercato di contenere l’uso del linguaggio tecnico, mi sono basata su documentazione scientifica per evitare di incorrere in grossolani errori. Si tratta di trovare un equilibrio tra la necessità di essere corretti dal punto di vista medico e il dovere di non essere noiosi.
Chi è Caterina? Che rapporto hai con lei?
Caterina è il mio alter ego. Con lei condivido la professione di giornalista e il fatto di avere sperimentato la malattia. Viene più naturale scrivere di ciò che si conosce. Caterina mi ha aiutato a farlo. Ho trasferito su di lei il peso di quanto ho vissuto e questo è stato terapeutico, è stato un modo per elaborare una brutta esperienza. Ma questo l’ho scoperto dopo. Ho creato Caterina perché ne avevo bisogno, senza chiedermi tanti perché. L’aspetto autobiografico si ferma qui. Le vicende della protagonista, i fatti narrati sono pura invenzione.
Chi sono le altre? Come le hai scelte?
Le altre sono personaggi storici, donne realmente esistite. Tutte tranne Katy, l’ominide del Pleistocene che però non escludo sia vissuta davvero. Il più delle volte sono donne di cui si sa pochissimo ed è questo uno dei criteri con cui le ho scelte: si doveva sapere poco affinché potessi liberamente immaginare le loro storie e in questo modo farle rivivere pienamente. Prendiamo l’esempio di Mercuriade, medica della Scuola Salernitana, vissuta nel XIV secolo: di lei si conosce solo il nome e il titolo di alcune sue opere. Perché le sue opere sono andate disperse? Ho raccontato quale potrebbe essere stata la sua storia, ma tante altre sono possibili. La bella di Xiaohe è un mistero dell’età del bronzo. Tapputi, considerata la prima chimica del mondo, creatrice di profumi, è soltanto citata in una tavoletta in scrittura cuneiforme del 1200 a.C. trovata nell’antica Assur. Tutto ciò che sappiamo della liberta Allia Potestas è racchiuso nel suo epitaffio. Claire Sevin, prostituta incarcerata a Parigi durante il Terrore, compare nei documenti d’archivio del Tribunale rivoluzionario e in altri resoconti della Rivoluzione Francese: la conosciamo un po’ di più, ma mi interessava il suo privato, dietro le righe dei documenti pubblici. Quanto a Mary Jo Kopechne, non si sa con esattezza cosa accadde nell’incidente di Chappaquiddick, la famiglia Kennedy ha fatto calare il silenzio, l’invenzione narrativa mi permette di fare un’ipotesi non inverosimile.
Hai elaborato una struttura molto ambiziosa, che però risulta semplice per il lettore, capace di raccontare il presente ma anche il passato, attraverso un gioco di rimandi che fanno pensare, più che a sogni, a viaggi sciamanici ed esoterici, è stato naturale arrivare a questa costruzione?
Sono partita dall’idea che Caterina per affrontare la malattia chiedesse aiuto a donne del passato, donne forti che avevano sofferto come lei. C’è quindi il presente di Caterina e il passato delle altre donne, un insieme che ben si presta a una struttura di racconti nel racconto come Le Mille e Una Notte (con la protagonista come una novella Shahrazad) o il Decamerone. Per entrare in relazione con queste donne, mi è venuto naturale pensare che Caterina, da giornalista, potesse cercare di intervistarle. Ma come si parla a chi è morto? Il sommo maestro in questo è Dante. Nel Vagabondo delle Stelle di Jack London il protagonista sfugge a una realtà carceraria reincarnandosi in persone di altre epoche, un fenomeno che lui chiama “la piccola morte”. Ho applicato un meccanismo simile a Caterina, che passa a poco a poco dal dialogo all’immedesimazione con le donne del passato, cadendo in trances che finiscono per coincidere con le sedute di chemioterapia.
Hai usato costantemente la prima persona di tutte le protagoniste delle storie, come hai fatto per renderle diverse l’una dall’altra?
Mi immedesimo in ciascuna di loro, come fa Caterina. Certo, la protagonista del mio romanzo lo fa in modo totale. Io mi limito a chiudere gli occhi e a immaginare come agirei, come parlerei, come penserei in quel tempo, con quel modo di vita, in quella situazione personale. C’è dietro un po’ di ricerca: mi documento su quali sono gli oggetti, gli abiti, i cibi che fanno parte della vita quotidiana delle diverse protagoniste, sugli eventi storici accaduti in quegli anni. Il fatto di usare la prima persona forse rafforza l’immedesimazione, ma quello che davvero incide è il punto di vista.
Metti in esergo una citazione di Ovidio dalle Metamorfosi, “Tutto cambia, nulla perisce”, era questa l’idea di mondo che volevi tramettere al lettore con questa storia?
Sì, nel senso che volevo trasmettere l’idea di vita che fluisce e unisce gli esseri umani, in questo caso le donne. Un’energia vitale che unisce nel tempo e nello spazio, una solidarietà tra generazioni, un dialogo attraverso i secoli. Qualcosa che non finisce mai, che ci possa far sperare che i nostri sforzi, l’amore, il dolore, tutto ciò che abbiamo vissuto non sarà vano perché ci sarà sempre qualcuno dopo di noi a prendere il testimone. A un certo punto, Caterina scrive: “Non è l’immortalità che cerco”; ma si riferisce a se stessa, perché in realtà quest’idea che le dà forza è qualcosa che evoca l’immortalità dell’umanità. Sempre che una bomba nucleare non ci distrugga tutti.
A un certo punto scrivi una frase che mi è sembrata molto giusta: Ogni malato è malato a modo suo. Un po’ come l’infelicità famigliare in Tolstoj…
Esatto, è proprio un riferimento all’incipit di Anna Karenina di Tolstoj, “Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece infelice a modo suo”. Ognuno ha un modo diverso di affrontare il dolore. Per quanto riguarda la malattia, e la sofferenza, la paura che essa provoca. C’è chi si chiude in se stesso, chi invece ne parla a tutti. C’è chi nasconde la malattia e chi la esibisce, come la ragazza con la testa calva decorata con l’henné che Caterina vede in ospedale. Non c’è un modo giusto o un modo sbagliato di reagire. Direi che tutto quello che aiuta, sempre nel rispetto del prossimo, va bene.
Scrivere professionalmente sui quotidiani ti ha aiutato a realizzare i tuoi romanzi di narrativa, oppure no?
Certo, il fatto di essere giornalista della stampa scritta mi ha aiutato perché sono abituata a scrivere cercando di essere chiara e comprensibile. Questo influisce probabilmente sul fatto che prediligo uno stile asciutto. E che so tagliare quando è necessario. Ma la tecnica narrativa è diversa da quella giornalistica. Per dirne una: invece di dire tutto nella prima frase – con la famosa regola delle cinque W, Who, What, Where, When, Why, fondamentale in un articolo giornalistico – in un romanzo bisogna creare un po’ di attesa per farsi leggere fino in fondo.