Oggi parleremo di un libro piuttosto bello, fra narrativa e saggio autobiografico, in compagnia dell’autore, l’amico scrittore Nicola Fano, che torna in libreria con La candela di Caravaggio, Elliot, – due anni dopo Il peso di Anchise. Il teatro dalla parte dei figli, Castelvecchi e Vite di ricambio – manuale di autodifesa di uno spettatore – Elliot su cui lo intervistammo due anni fa un momento prima della parentesi del Covid, sempre su queste colonne. Lo ricordate? Allora eravamo davanti a una famosa libreria romana a piazza Fiume, la Minerva, in una giornata freddissima e assolata, oggi invece ci troviamo in Prati, il suo quartiere, davanti a un grande teatro, nel tardo pomeriggio di una giornata primaverile, il teatro Manzoni, dove fra una mezz’ora, insieme al filosofo Giuseppe di Giacomo, presenterà il libro.
Ancora un saggio su sfondo autobiografico dunque, un Personal-Essay, come lo si chiama oggi – ti piace questa definizione? Ti ci riconosci.
“Mi piace moltissimo.”
Con il Teatro come motivo ispiratore, anzi come stella polare… un viaggio, che parte dai riti dionisiaci nella Villa dei Misteri a Pompei e arriva agli arlecchini e saltimbanchi di Picasso e alle bruciature di Burri in rapporto al teatro beckettiano, passando per Shakespeare e il Manierismo,… un itinerario che si snoda fra la Grecia classica e Parigi, la Spagna, la Francia, New York, l’Italia, naturalmente, attraversata in lungo e in largo…. sono tanti i luoghi che tocchi… Intanto, la prima cosa che mi viene da chiederti, come a riprendere il filo dell’altra intervista; – hai viaggiato molto nella tua vita? Forse anche grazie al tuo mestiere di giornalista, approfittavi delle trasferte per visitare i musei le chiese, racconta…
“Nel complesso, sono stato molto fortunato: la mia professione di giornalista mi ha consentito di conoscere molte persone e molti luoghi, in Italia e in Europa. Per altro, ho fatto il giornalista quando ancora esisteva il giornalismo culturale: i giornali davano molto spazio al teatro (che all’inizio, fine anni Settanta primi Ottanta, era il mio specifico) e alla cultura, quindi era normale andare a vedere spettacoli o mostre o comunque seguire eventi nei luoghi più disparati. Pagati dal giornale, per di più. Ma credo che ancora di più mi abbia aiutato il mio sentirmi “spettatore”: sono sempre stato attento a “vedere”, pronto a farmi stupire. E quindi in cerca di stupore, “disposto” allo stupore. Infine, mi ha aiutato la mia condizione di autodidatta: alla fine della adolescenza, con un corso universitario interrotto subito prima della laurea alle spalle, e un ruolo professionale di un certo prestigio, mi sono sentito obbligato a studiare. A studiare sul serio, in modo sistematico. E non ho mai smesso. Questi due atteggiamenti (spettatore e studioso) hanno sempre caratterizzato le mie esperienze di vita. Tutte”.
Ci troviamo in un camerino rimediato del teatro, negli oscuri visceri del sottopalco, fra un corridoio di passaggio e un tramezzo posticcio con mobili qua e là, appoggiati, nell’attesa che Nicola entri in scena per la presentazione, già piuttosto affollata nelle prime file in platea – tutto cominciò con Paolo Uccello, prima di Shakespeare e prima della Commedia dell’arte. Un grande artista ingiustamente trascurato per secoli, su cui ha pesato il giudizio del Vasari, il critico-pittore, come racconti, il ministro della cultura dei Medici, che nelle sue Vite, 1550, gli rimproverava, mi sono appuntate delle frasi significative, di “lasciare il certo per l’incerto”, per quanto “dotato di sofistico ingegno”; perché si rifiutava di dipingere figure imitando la natura, com’era d’uso allora, giusto? estenuandosi in una faticosa ricerca nel campo della prospettiva, e insomma il critico-biografo rinascimentale lo considerava un “talento sprecato”.
“L’ammirazione per Paolo Di Dono, questo il nome vero di Paolo Uccello, è stata immediata: qualcosa mi scattò fin dalla prima volta che vidi La battaglia di San Romano al Louvre, trentacinque, quarant’anni fa. Ammirazione per le sue opere e per la sua vita. La sua vocazione teatrale mi parve subito del tutto evidente. Come molto significativa è la sua atipicità nel panorama della cultura cortigiana quale – comunque – è stata quella del primo Rinascimento. Quando poi ho scoperto che Paolo Uccello era uno dei preferiti di Picasso, ho capito meglio: il suo obiettivo era portare lo spettatore dentro al quadro, farlo spaziare dal centro alla periferia dell’opera. E rendergli libertà assoluta di osservazione. Come a teatro, dove ognuno può guardare ciò che vuole.”
Bisognerà aspettare Roberto Longhi, molti secoli dopo, per una definitiva riabilitazione del pittore: il grande critico novecentesco riconobbe la sua “arte plastica”, fondativa di un nuovo modo di concepire la pittura e la funzione artistica…
“Paolo Uccello attribuiva un valore magico all’atto creativo, con le sue opere intendeva trasformare la vita, non imitarla come prevedevano i canoni dell’epoca. E in questa chiave – quasi un’epifania, quasi un tentativo blasfemo di sostituirsi a Dio – dava fondo ai suoi demoni personali: metteva in scena il mondo così come lo vedeva nei suoi incubi, con i colori rovesciati, con le forme immobili, bloccate in un tempo eterno”.
Appunto anticipando Picasso e le sue Demoiselle d’Avignon, riassumo, in un recupero dell’arte tribale, dici; nel monumento equestre a Giovanni Acuto, il condottiero appare come “inchiavardato nel nulla”, in una prospettiva intenzionalmente antinaturalistica, anti realistica…
“Nel suo studio il pittore prima di realizzare le sue opere, scolpiva in legno piccole figure di uomini, cavalli, lance, animali. Poi disponeva le statuette su un grande tavolo e costruiva la scena che voleva dipingere. Solo dopo, dopo aver composto la “regia” del suo quadro, iniziava a realizzare gli schizzi sui quali avrebbe composto l’opera finale”, studiando le reazioni prospettiche fra lo spettatore e le immagini”.
Ma è solo con gli scenografici Polittici di Piero della Francesca, e con le allegorie di Bellini, che i personaggi cominciano ad apparire proprio come fossero recitanti sulla scena di un teatro, grazie alla moltiplicazione dei punti di vista e ad altri artifici scenografici, e che le due arti – teatro e pittura – entrano davvero in contatto…
“Il teatro è la relazione emotiva che si instaura tra due soggetti, l’attore e lo spettatore. Questa relazione, nei millenni, assume funzioni diverse (fino a tutto l’Ottocento permane una certa propensione alla catarsi, dal Novecento sparisce totalmente, mentre ora le cose stanno cambiando di nuovo…) ma poggia sempre sulla compresenza, in diretta, dal vivo, di quei due soggetti che devono emozionarsi vicendevolmente. Naturalmente, i due soggetti devono anche “mettersi d’accordo” su delle regole che garantiscano l’emozione. La prima e più importante di queste è la convenzione della finzione: c’è una persona (l’attore) che fa finta di essere un altro (il personaggio) e c’è un altro (lo spettatore) che fa finta di credere che quella persona sia veramente un altro. Finzione. La stessa convenzione che ho ritrovato in certa pittura. Per secoli, sulla scorta delle convenzioni poi celebrate dal Vasari, si è stati grandi pittori “imitando” la natura, ossia facendo fotografie. Enrico VIII (il re Tudor, l’inglese ciccione che ha avuto tante mogli), mandava il suo “fotografo” di fiducia, il grande pittore Hans Holbein, a ritrarre possibili mogli in giro per l’Europa. Lui poi guardava i ritratti e sceglieva… A me interessa un altro genere di pittura: quella che travisa la realtà. Che la interpreta. La pittura che stabilisce con il pubblico una relazione basata sulla finzione. Paolo Caliari, il Veronese, dipinge per il refettorio di un monastero le Nozze di Cana. Centrotrenta personaggi vestiti da ricchissimi veneziani del secondo Cinquecento, una scena sontuosa e carica di allusioni ai piaceri, al godimento, alla musica, alla convivialità. Poi, al centro, quasi ospiti sperduti, Gesù, la Madonna e quattro apostoli vestiti come dei poveri della Galilea del loro tempo. A Cana, Gesù tramutò l’acqua in vino per aiutare due giovani sposi a festeggiare dignitosamente il loro sposalizio, malgrado non fossero ricchi. Insomma, le nozze del Veronese sono pura finzione: un grande banchetto veneziano del Cinquecento. E gli spettatori – i monaci – lo apprezzarono in quanto tale: non volevano una foto dei poveri della Galilea (come aveva fatto Giotto dipingendo la medesima scena, per esempio), ma volevano un’invenzione con la quale emozionarsi”.
La luce elettrica viene scoperta solo alla fine dell’Ottocento. Sui problemi legati all’illuminazione – illuminazione teatrale, scenica, oggi chiamata illuminotecnica – ti soffermi molto nel tuo libro… quanto ha inciso nello sviluppo delle due arti la luce e i suoi strumenti di diffusione?
“La luce offre all’artista (e, nel teatro, al regista) la possibilità di suggerire un punto di vista. Nei quadri di Caravaggio, per esempio, tutta la scena è visibile, ma solo certi particolari sono sottolineati dalla luce (luce di candele, in genere, da qui il titolo del libro). E quei particolari fisici (uno sguardo, una ruga, un’unghia sporca, un ghigno) consentono a Caravaggio di mettere in primo piano ciò che egli ritiene incarni l’anima del personaggio e quindi dell’opera. Lo stesso fa il teatro, a partire dal Novecento, grazie all’apporto della luce elettrica. La luce serve a giocare con gli spazi: vuoti e pieni, luci e ombre (a teatro e in pittura spesso i vuoti e le ombre contano più di ciò che è pienamente visibile, così come i grandi attori recitano più con le pause che con le parole). Tutto ciò non vale per il cinema dove il primo piano, per esempio, esclude il resto dell’immagine”.
Le Allegorie del Bellini che sembrano “la scena congelata, scrivi, di uno spettacolo teatrale”, che fanno pensare a “l’attimo successivo dell’apertura di un sipario teatrale.”
“Il passaggio dal buio prima dell’apertura del sipario alla luce dello spettacolo che inizia è come un atto di nascita, come il passaggio dall’utero materno, luogo protetto quant’altri mai, alla vita, soggetta a qualunque variabile. Da quando esiste questa possibilità tecnica (ossia da quando c’è la luce elettrica e la sala può essere immersa nel buio prima dell’inizio dello spettacolo) il teatro ha ricercato quella situazione di stupore piena d’attesa. Beckett – nella sua unica conversazione pubblica, nell’ambito di un convegno di psicoanalisti – disse che la condizione che aveva sempre preferito era stata quella di chi è sul punto di nascere: rassicurato dal ventre materno e ancora pronto a farsi sorprendere dalla vita. Poi, una volta nati – disse ancora Beckett in quella sua unica circostanza pubblica – bisogna lavorare per capire e, possibilmente, accettare quel che ci capita. Credo che l’atto creativo del teatro (e spesso anche dell’arte tout court) consista nel cercare di riprodurre, o quanto meno riproporre, quello stato d’animo: indurre una predisposizione alla vita, tragica o comica che sia. Il quadro di Bellini, Allegoria sacra, è l’incubo degli esperti di iconologia per quanto è disseminato di enigmi incomprensibili. Io non mi sono azzardato a interpretarlo, ho semplicemente suggerito quella che potrebbe essere stata l’intenzione del pittore: un’apertura di sipario. Con tutto ciò che questo comporta, poi: lo spettacolo che seguirà potrà essere bello o brutto, ma al momento dell’apertura del sipario tutte le possibilità sono sul tavolo”.
Pontormo, Rosso Fiorentino, Caravaggio, Bernini… – sfogliamo il libro insieme a Nicola, con le sue illustrazioni finali, coi post-it verdi pieni dei miei appunti – arte che diventa rappresentazione illusionistica finzione teatro… il colonnato di San Pietro del Bernini, quel delizioso aneddoto autobiografico, quella piazzetta dove era nata tua madre, piazza Rusticucci, sparita durante il riassetto urbanistico “pruriginoso” del fascismo… Eppoi Venezia, Tintoretto, il primo nero ammesso nella storia dell’arte, il Moro di Venezia, l’Otello e Desdemona di Shakespeare… ecco un momento fondamentale di congiunzione fra le arti…
“Venezia è il luogo in cui tutte le arti si incontrano. Naturalmente, inevitabilmente, direi, perché è un luogo di invenzioni costanti. Si inventa per sopravvivere, a Venezia. Nulla può essere autentico, a Venezia: la stessa struttura urbanistica della città è irrealistica. Una colossale finzione accettata per vera. A Venezia la civiltà della ruota ancora non è arrivata, eppure tutti lì vivono come se fosse normale abitare, camminare, commerciare sull’acqua”.
Splendida la parte napoletana e palermitana, che è anche narrativa, biografica, con uno spiccato gusto del ritratto, con un’immersione nell’arte popolare verso cui hai una predilezione naturale; la coppia Viviani (commediografo, attore)-Gemito (scultore), l’arte che scende di livello sociale, per rappresentare gli ultimi, i miserabili, i ragazzini zozzi e affamati del porto (Gemito veniva dal fango dei vicoli, abbandonato dalla madre alla Ruota degli Esposti, “antropologo ante-litteram”, lo definisci, e anche “proletario organico”) e ancora, ecco, i Teatrini sulla strada, la Scatola delle illusioni, il Barbiere della meluccia, e l’equivoco critico della dimensione napoletana, vernacolare, entrambi, sempre sull’orlo della follia e della miseria…
La natività di Caravaggio fatta a pezzi e data in pasto ai porci dalla mafia in un gesto di sacro disprezzo verso la cultura, una scena quasi romanzesca, da film, per il suo potente valore simbolico, e che forse qualche narratore-cineasta ha raccontato…
“Se Venezia è una città che fa finta di essere come tutte le altre, Palermo cerca di nascondere il suo non essere come tutte le altre. L’Oratorio di San Lorenzo, con i “teatrini” di Serpotta che accennavi (bassorilievi a tre dimensioni, qualcosa di unico nel loro genere) e il Caravaggio rubato dalla mafia mi è parso una metafora molto potente della città”.
Veniamo un momento alla tua scrittura. Mi ha colpito lo stile preciso e sorvegliato del tuo libro, forse l’ho già detto. Hai saputo tenere insieme con raro equilibrio vari linguaggi specialistici – critica d’arte, critica teatrale, Storia, biografia, autobiografia, reportage – senza eccedere nell’uso dei lemmi tecnici, che allontanerebbero il lettore comune. Non viene mai meno la leggibilità, la comunicatività col lettore, la voglia di girare pagina. Il tuo stile si è modificato negli anni? Come? oggi ti sembra di scrivere meglio che – poniamo – a 30 anni? Ce ne vuoi parlare dell’evoluzione stilistica della tua scrittura? Quanto ha inciso sulla tua scrittura l’esercizio del mestiere giornalistico che impone sintesi, presa diretta, un certo utilizzo delle fonti…
“Ogni tanto rileggo qualche mio articolo di trent’anni fa o, molto più a fatica, i miei libri di vent’anni fa. Non so dire se allora scrivessi meglio o peggio: cercavo di più il bell’effetto. Ammiccavo di più al lettore. Cercavo di portarlo dalla mia parte con qualche furbizia di troppo: è quel che si fa nel giornalismo. Per di più, io lavoravo per l’Unità dove il senso di condivisione, di comune appartenenza tra chi scriveva e chi leggeva era fortissimo. Io sapevo che il lettore si fidava di me, a prescindere, quindi mi prendevo qualche libertà di troppo per divertirlo: sapevo che comunque mi avrebbe seguito perché c’erano idee e militanza comuni a legarci. Negli anni, ho cercato di perdere questa – chiamiamola così – propensione all’ammiccamento. Sia quando scrivo articoli – raramente, per fortuna – sia quando scrivo libri. Lascio parlare le cose che so e che racconto. E quando si arriva a una certa età, avendo girato molto il mondo con gli occhi da spettatore e da studioso/curioso, si finisce per sapere un sacco di cose. Spesso cose banali, marginali, che però possono aiutare a capire le questioni generali”.
Dici alla fine nei ringraziamenti, che questi “reportage da fermo”, così li definisci, sono nati in una gita agli Uffizi con aspiranti attori della Fondazione Teatro della Toscana dove hai insegnato. E poi dalla reclusione forzata imposta dal Covid…
“Sono stato giornalista a tempo pieno per vent’anni e, successivamente, teatrante in senso proprio per un altro quindicennio: ora, da otto anni praticamente faccio solo il docente. Insegno Storia del Teatro all’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico di Roma e Filosofia e letteratura del teatro all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino. Questa mia terza vita è sicuramente quella che mi dà di più, in assoluto. Nei miei vari corsi ho circa un centinaio di studenti ogni anno: la relazione quotidiana con dei giovani che – come me quarantacinque anni fa – hanno scelto di fare della cultura la loro vita è qualcosa di impagabile. Una fonte costante di emozioni e di idee. Ho scelto di fare il docente non solo perché ero rimasto senza impiego e avevo bisogno di uno stipendio, ma anche perché mi sembrava giusto restituire ai “giovani” ciò che mi avevano dato i miei maestri: la trasmissione dei saperi è qualcosa che ha sempre ispirato la mia vita pubblica e privata. Ma ho scoperto subito che il rapporto con i ragazzi è binario: e, quasi sempre, è più quello che ricevo dai miei allievi rispetto a ciò che io dò loro. I miei due libri più recenti (Il peso di Anchise sul rapporto padri e figli nella letteratura teatrale e questo La candela di Caravaggio sulle suggestioni che legano l’arte e lo spettacolo) è come se li avessi scritti insieme ai miei ragazzi: ho messo in buona forma – ci ho provato, almeno – quello che ci siamo detti in questi anni.“
Ecco, il tempo è esaurito… Ci salutiamo con un abbraccio, rimettiamo le mascherine, Nicola Fano è chiamato in palcoscenico per parlare del suo libro, io mi siedo in platea fra il pubblico: incomincia lo spettacolo!
Alla prossima.