Tutta la mia famiglia vantava un esempio virtuoso: zio Arduino.
Zio Arduino era un paradigma di perbenaggine, concentrato in centocinquantacinque centimetri di altezza. Si manifestava con la sobria eleganza di un cravattino a farfallina, due baffetti fin de siecle, e una brillantinata calvizie. Era impiegato all’anagrafe: un lavoro dignitoso e non superbo, arricchito dalla lettura autodidatta di volumi di filosofia e dall’altrettanto autodidatta scrittura di poesie. Non tollerava il turpiloquio che, secondo lui, iniziava dal termine reggipetto, in poi.
Non beveva e non fumava, per cui a sua moglie Emma, la quale soffriva nei suoi confronti di un complesso di inferiorità, non restava che rivalersi negandogli, per dispetto, la pastarella della domenica.
Ma a un certo punto, zio Arduino, invecchiò, o ringiovanì; a seconda dei punti di vista.
Iniziò a dimenticare i titoli dei suoi libri preferiti, i nomi dei nipoti, poi anche i loro volti. Dopo colazione, si lavava i denti, poi andava in cucina per colazione. Da qualche tempo, c’era in casa uno sconosciuto che si affacciava dagli specchi, solo quando passava lui.
In breve, le sue notevoli facoltà calarono, ma non di quantità, di posizione. Dal cervello scesero nelle mutande. La mente smise di essere acuta, in favore di un organo, che fino ad allora era stato usato solo nei limiti stabiliti dalla dottrina cattolica.
Da quel momento, zio Arduino e zia Emma si diedero alla corsa indoor. In particolare lui rincorreva lei intorno al tavolino del soggiorno per farla sua, a tutte le ore, prima e dopo i pasti, prima e dopo le pasticche, durante la misurazione della pressione, il lavaggio dei piatti, dei panni, l’impasto degli gnocchi, il rammendo dei calzettoni, il rosario delle sette.
Lei, che non riusciva più ad accoglierlo tra le gambe, a causa della sciatica ed era spesso costretta a nascondersi nel bagno. Quando non riusciva a raggiungerla, lo zio si denudava, andava in balcone e gridava, sfruttando l’acustica del cortile: “Mia moglie non mi vuole più, fa la zoccola nelle altre case.” Ormai erano tutti e due la barzelletta del condominio.
La sentenza del medico non lasciò scampo. Demenza senile e priapismo.
Ce lo disse la zia prima del pranzo di Pasqua. Al momento del caffè eravamo seduti al tavolo e lei passava dietro ognuno di noi, versandocene un dito. Quando toccò a zio Arduino, lui si voltò, annusando il seno di lei che si chinava per riempirgli la tazzina, poi cambiò il colore del viso e ci disse: “Beh, si è fatto tardi! Non ce l’avete un casa?”
Zia ci supplicò: “No, per carità, non ve ne andate che oggi ho i dolori.”
Col tempo zio Arduino ringiovanì ancora di più: tornò a sedersi su una carrozzina e a portare il pannolone.
Zia Emma dovette a malincuore assumere una badante, ma scoprì che alla fine non era poi così male, dato che lui aveva preso a rivolgere il suo interesse a questa nuova, giovane, corpulenta femmina balcanica.
Al momento del cambio del pannolone lui allungava le mani per tastarle le poppe, sussurrandole: “Vieni qua a sentire l’uccellino che canta sulla fronda.”
Ivanka aveva escogitato un modo per accontentarlo senza violazioni: sopra il maglione indossava un reggiseno riempito di ovatta e così lui tollerava il cambio, palpando l’imbottitura con una certa soddisfazione.
Un giorno zia Emma telefonò a mia madre, piangendo sconvolta.
“Quel delinquente!”
“Chi?” Chiese mamma.
“Quell’infame di tuo zio!”
“Che ha fatto!”
“Che ha fatto? Oggi Ivanka stava spolverando quei suoi libri di poesia e ne ha fatti cadere tre quattro per terra. Se ne è aperto uno ed è uscito un biglietto. Sto stronzo!”
“Ma perché, che c’era scritto?”
“C’era scritto: 26 aprile 1967. Sto andando a scoparmi Mirella.”
“Sei sicura?”
“Purtroppo sì!” Rispose la zia con rassegnazione.
“Lo so, ora però cerca di pensare solo che sono passati cinquant’anni; ma chi era Mirella?”
“Era una sua collega che chiamava sempre a casa. Una zoccola!”
“E tu non te ne eri accorta?”
“Macché, lui poi andava in giro tutto blindato.”
“E adesso?”
“Appunto! Adesso? Che devo fare? Lo spedisco da Mirella, con tutta la carrozzina e il pacco sorpresa nel pannolone?”
“Non so che dirti.” Sospirò mamma.
“Allora ci penso io.” Sentenziò zia.
Due giorni dopo zia Emma chiamò a casa per invitarmi domenica a pranzo.
Era la prima volta che invitava solo me.
“Perché?” Chiesi a mamma.
“Non lo so, forse non vuole tanta gente a casa. Ti va di andare?”
“Credo di no, ma è tanto che non vedo zio Arduino. Magari mi trattengo poco, gli leggo qualche poesia come a Pasqua.”
“Sì, magari. Zia ha detto che lui gradirebbe anche delle pastarelle.”
“Certo. Ma quindi ora lei gli permette di mangiarne?”
“Strano, ma sembra proprio così.”
Quella mattina indossai il vestito verde salvia, un po’ retró, che era piaciuto tanto allo zio il giorno del battesimo della piccola Beatrice, la figlia di mia sorella, e andai.
Ivanka mi aprì la porta interrogandomi:
“Portato pastarelle?”
Le mostrai il pacchetto e allora lei si scostò, liberando l’ingresso e permettendomi di entrare.
Trovai lo zio sulla carozzina, vestito e pettinato di tutto punto.
Non ebbi neanche il tempo di dire ciao, che zia Emma fece irruzione nel salottino e annunciò:
“Dino, hai visto che sorpresa? È venuta a trovarti Mirella. Non la riconosci?”
Io la guardai con gli occhi sgranati.
“Ma come, Mirella?” Pensai: “Cosa c’entra adesso?”
Anche lui mi guardava con gli occhi sgranati, ma non per sconcerto, come per me.
“Mirella!” Sospirava con aria sognante.
“Sì, guarda.” Continuò zia: “Ti ha portato anche le pastarelle e mi ha convinto a fartene mangiare una.”
“Ah, brava!” Disse lui, piantando lo sguardo sulla mia discreta scollatura.
“Vieni, vieni a sederti, Mirella. La lasagna è pronta.” Disse zia.
Gustai le portate seduta accanto allo zio che continuava a fissarmi e, prima delle paste, raggiunsi zia Emma in cucina.
“Zia, ma che succede? Perché gli hai detto che sono Mirella?”
“È un’indicazione del dottore. Sostiene che bisogna fargli rivivere i momenti più felici della sua vita. Mi aiuti?”
“Certo, ma non capisco perché proprio…”
“Non preoccuparti di questo, ne ho parlato col dottore, tu fatti chiamare Mirella e basta”.
Le pastarelle vennero scartate.
“Oggi, grazie a Mirella, ne mangerai una, sei contento?” Disse la zia.
“Eh, sì!” Rispose lo zio.
“Ti aiuterà lei a mangiarla.”
Zio Arduino sembrava quasi ringiovanito dalla gioia. Mangiò la sua pastarella e io gli pulii la bocca dalla panna, mentre lui mugolava di piacere.
Tornai a casa credendo di aver fatto un gesto buono e utile; in fondo mi ero anche divertita.
Quello che accadde dal momento in cui me ne andai, lo appresi alcuni mesi dopo, dalla voce di Ivanka.
“Signora Emma staccato pisello.” Disse.
Superato il momento di orrore mi concentrai per capire quello che mi diceva.
Dopo pranzo, zio Arduino era stato messo a dormire e, prima che fosse sveglio, la zia diede indicazione a Ivanka di iniziare a cambiargli il pannolone. Lo zio si svegliò del tutto, mentre la badante lo stava rivestendo.
“Come ti senti?” Gli disse zia. “Ti hanno operato; ti hanno tolto il pisello.”
Lo zio la guardò come fosse un incubo e provò a tastarsi, ma non riuscì ad andare oltre l’ovatta del pannolone.
“Non preoccuparti, non l’hanno buttato via, eccolo!” Gli mostrò un involucro cilindrico e lo scartò lei stessa mostrandogli: “Piccolo missile tremante.” Lo definì Ivanka.
In pratica un vibratore.
“Ma dove ha preso un coso del genere?” Chiesi allarmata ad Ivanka.
“Dietro nostra via, aperto negozio di giocattoli e mutande.”
“E la zia è andata lì”
“Certamente, portato anche me e signor Dino su carrozzella. Posto molto interessante.”
Ivanka proseguì raccontando che la zia aveva fatto credere a zio Arduino che gli era stato tolto il pisello perché, dopo il loro ultimo incontro, Mirella era rimasta incinta e, come risarcimento, aveva voluto il suo uccello.
“Ma come è possibile che lo zio le abbia creduto?”
“Signor Dino ormai crede a tutto. Pianto tanto per suo pisello.”
Ivanka raccontò poi che la zia aveva comprato un bambolotto che poteva piangere e lo aveva messo tra le braccia di zio Arduino, presentandoglielo come figlio suo e di Mirella.
Zio Arduino strinse il bambolotto a sé e lo accarezzò, sorridendo. Per tre giorni e tre notti non lo lasciò prendere a nessuno, neanche durante la doccia mattutina.
Lo zio sembrava rinato, felice, cantava per il suo bambino: “Salta salta, piccolino…”; mentre zia Emma aveva preso ad essere più nervosa e triste, quasi gelosa.
Una notte, la zia provò a togliere il bambolotto dalle braccia dello zio; lui si svegliò e lei sfilò il ciuccio al pupazzo, facendolo piangere.
“Carlo!” Lo chiamò lui nel sonno e la zia, a sentir nominare, dopo tanti anni, il nome del loro bambino, sussultò.
La mattina dopo, lo zio si svegliò e si aggrappò al maglione di Ivanka, chiamando: “Carlo!”
“Aspetta, signor Dino. Chiamo signora. Lei sa cosa dire te.”
Zia Emma si affacciò sulla porta della camera da letto e, mentre si asciugava le mani con lo strofinaccio della cucina, annunciò: “Cerchi Carlo? Sai che c’è? È morto!”
Lo zio smise di respirare per alcuni secondi, si nascose gli occhi con le mani tremanti e prese a darsi dei pugni in testa.
“Sì, è morto. Anche se fai così, resta morto.” Gridava zia Emma, tra le lacrime. Entrò nella camera, spalancò le tende e spinse la carrozzina davanti la finestra.
“Guarda, guarda fuori. Lo vedi il balcone? Ti ricordi, quel giorno che è saltato giù?
Salta, salta, piccolino, papà e mamma son vicino.”
Lo zio smise di darsi i pugni e ripetè: “Salta, salta piccolino…”
“Il 26 Aprile 1967 e tu, su quel balcone, non c’eri; eri andato a scoparti Mirella. L’hai pure scritto.”
La zia ripiegò lentamente lo strofinaccio e lo diede a Ivanka; poi si avvicinò alla carrozzina, mise le mani sulle spalle di zio Arduino, poi fece per stringergli la gola.
“Ti dovrei ammazzare, ma non è giusto che da Carlo arrivi prima tu. Salta, salta, piccolino, papà e mamma son vicino… l’unica poesia che ti è venuta bene.”