Nicola Fano: “Io che scrivevo a Beckett…”

Lunga e approfondita intervista al critico autore di un manuale di autodifesa di uno spettatore: Vite di ricambio

Nicola Fano è molte cose insieme: uno storico del teatro, un autore teatrale, un critico, un giornalista per 20 anni nelle fila dell’Unità, poi di Diario della settimana (di cui fu vicedirettore), e da parecchi anni il direttore di uno dei migliori magazine culturali del web, succedeoggi.it. Ma soprattutto Nicola è un amico con cui ho condiviso un sacco di cose in 30 anni e più che ci conosciamo, la maggior parte belle, qualcuna brutta, dolorosa, per esempio la morte prematura di un amico comune, lo scrittore Sandro Onofri che ci lasciò nel 1999 appena 44enne, ed è un lutto che ancora ci portiamo dentro… e insomma, oggi, lo voglio intervistare per voi, per  Genius, allievi e docenti, per tutti i lettori del nostro sito, – prendendo spunto dal suo nuovo libro Vite di ricambio – manuale di autodifesa di uno spettatore – Elliot – che racconta e spiega il suo rapporto con il teatro attraverso una serie di medaglioni suggestivamente titolati: Del ricordare (1973), Fuori dal labirinto (1977), La tempesta (1978), Ho scritto a Beckett (1984) Con Dürrenmatt e Ionesco (1983/1988) ecc. – che si muovono al confine di vari generi (saggio autobiografico, reportage, diario morale), ma il teatro è solo una lente, ci pare, per esplorare/descrivere qualcosa che ha a che fare con la antica questione del carattere degli italiani, così come si è andato configurando dal delitto Moro, nel ‘78, – fino all’oggi, passando a cavallo del millennio, attraverso mezzo secolo di storia e di storia della cultura italiana.

Ti riconosci in questa lettura? – gli chiedo, – siamo davanti alla libreria Arion di Piazza Fiume, sorseggiando al sole un caffè da asporto in una mattina romana fredda e assolata, in piedi, provvisoriamente, uno dei primi giorni dell’anno, le mascherine abbassate, scoppola scozzese, loden e guanti lui, cappelletto da polo, con i copri-orecchie,  io, – L’idea che ne esce comunque, non è rassicurante né edificante. Siamo ancora come ci vedeva Leopardi nel 1824 nel famoso Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani (1824)?: e cioè “le classi superiori d’Italia” che brillano per cinismo, e il popolo italiano, “il più cinico di tutti i popolacci”? – gli esempi nel tuo libriccino non mancano.

Sì, mi riconosco in questa lettura. Ma non siamo più come ci vedeva Leopardi: siamo peggiorati. Leopardi, da bravo poeta, vedeva le cose attraverso una lente dorata, quasi elegiaca. Pur nel suo pessimismo (sociale, in questo caso). Non siamo più nemmeno come ci vedeva Alfieri nelle sue invettive contro gli italiani immorali sempre pronti a vendere la propria coscienza per due lire (mi riferisco all’epilogo di una sua strepitosa commedia, Il divorzio). Io penso che noi altri italiani non abbiamo più una coscienza: nulla da svendere, insomma. Il cinismo presuppone una scelta consapevole, mentre a me pare che l’orrore nel quale siamo precipitati sia frutto di automatismi. Quasi nessuno più sceglie di essere qualcosa: ci si limita a lucrare tutto e subito ai danni di chiunque e qualunque cosa. Può darsi che la nostra sontuosa immoralità sia giunta a un punto di non ritorno, può darsi di no. Ebbene, se c’è ancora un margine per riprenderci, va cercato nella memoria collettiva: il teatro vive di memoria collettiva, per questo mi appassiona. Per questo ho cercato di ritrovare la storia del mio paese nelle migliaia di spettacoli che ho visto in tanti anni di ossessione teatrale.

Rispetto al tuo ruolo di spettatore che rivendichi orgogliosamente – “Di norma, un giovane appassionato di teatro sogna di fare l’attore, – scrivi – il regista, l’autore, al limite lo scenografo o il musicista. Io no. Io volevo fare lo spettatore” – ti senti più del Novecento o del nuovo millennio. come è cambiato in questi anni? Quale il senso dell’andare a  teatro oggi?

Essere spettatore, per me, significa porsi nella condizione di vedere le vite degli altri e, possibilmente, capirle. Tramite questo “esercizio”, poi, ho cercato di capire la mia. È stata questa la lezione che mi ha dato il teatro: capire uno spettacolo mi ha aiutato a capire la vita. E questo, se vogliamo, è anche il senso del teatro di oggi. E di sempre, ovviamente. Come uomo mi sono formato nel pieno del Novecento, tra marxismo e storicismo critico. Mi sconcertano, per dire, certi politici di oggi che commettono errori terribili ma banali, marchiani: si vede che non hanno studiato politica. Nemmeno io ho studiato politica in modo formale (solo una volta andai a seguire un corso alle Frattocchie, la mitica scuola politica del Pci, e fu un’esperienza unica, prima o poi ne scriverò…), ma ho imparato le regole rubandole ai grandi maestri di vita e di politica che ho conosciuto a l’Unità. Insomma, in questo sono un uomo del Novecento: non ne sono né contento né scontento, semplicemente è così. Ma come spettatore non mi sento legato a un’epoca: guardo le cose e cerco di capire. Per tanti anni, inseguendo il mito di Beckett, ho pensato che, nella vita, il segreto è che non c’è segreto. Ora comincio a pensare che un segreto ci sia: imparare l’arte di guardare.

Un tuo vecchio direttore all’Unità, innominato ma facilmente riconoscibile nel libro, nella figura di Walter Veltroni, al quale avevi chiesto di continuare a occuparti di teatro, racconti, “mi spedì a dirigere il servizio sportivo: «Mi serve un intellettuale come te per parlare di calcio! E lo faccio per te. Sei giovane! Il teatro è una cosa da vecchi”.

Veltroni è un uomo vincente. Ha fatto il politico, il ministro, il vicecapo del governo, il sindaco di Roma, il giornalista, il saggista, il romanziere, il regista cinematografico, il documentarista… io ho fatto altre cose. Pazienza. Secondo certe logiche, non sono un vincente. E in effetti ho un solo rammarico sostanziale: non ho mai vinto un premio!

Shakespeare è una presenza costante nei tuoi scritti, e ogni tanto ritorna anche qui. Come nelle pagine assai belle sulla Tempesta – il testamento poetico di Shakespeare – che nel ‘78 – l’anno del rapimento Moro – fu messa in scena da Strehler al Piccolo di Milano – e il grande regista parlò, durante le prove, in quei giorni drammatici del rapimento Moro, prelevo ancora dal testo – “dell’impotenza dell’arte, del teatro a mutare e rendere migliore la società riferendosi alla simbologia di Prospero che alla fine abiura la sua magia” con la meravigliosa frase: Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo d’un sogno è raccolta la nostra breve vita”.

Shakespeare usa come sinonimi i termini “sogno” e “teatro”: all’epoca, alla fine del Cinquecento, era un vezzo abbastanza diffuso tra menti sopraffine. L’illusione era peculiare del teatro perché in platea il pubblico sognava. Insomma, l’illusione era il contrario della realtà (lo è tutt’ora, ovviamente), ma all’epoca far riferimento all’illusione aveva un valore completamente diverso da oggi: l’illusione era lo spazio nel quale si poteva vedere in anticipo il futuro. Shakespeare era un uomo galileiano (fu Giordano Bruno, a Londra, a spiegargli la teoria copernicana) e in quanto tale si impegnò a contraddire tutte le regole aristoteliche. Perché Aristotele era il passato e Galileo il futuro. Ma, negli anni in cui Shakespeare conobbe le intuizioni dello scienziato italiano, quelle erano bollate dal potere ecclesiastico come “illusioni”. Ecco perché per Shakespeare l’illusione è rivoluzionaria. In questa chiave, essa diventa un sogno, ossia teatro.

In questo libro ci sono diversi incisivi ritratti di uomini di teatro, registi, attori, con cui hai lavorato, comici, scrittori conosciuti, intervistati, frequentati, studiati, adorati: Ionesco, Dürrenmatt, Beckett, Gassman, Albertazzi, Petrolini… La ritrattistica è un’arte che ti appartiene, ed è presente anche in altre cose nella tua ormai folta bibliografia (De Rege varietà. Biografia probabile di un duo comico, biografia dei fratelli De Rege, e il libro su Garibaldi, Garibaldi – l’illusione italiana, e poi Ferribbotte e mefistofele. – Storia esemplare di Tiberio Murgia ecc.)…

A trent’anni ebbi una crisi profondissima: Foscolo, che quand’ero ragazzo era il mio mito, a quell’età aveva già scritto Dei sepolcri che considero uno dei frutti più alti della poesia e dell’identità italiana. Dovetti ammettere che non avrei mai raggiunto quelle vette: considerazione ovvia, evidentemente, ma difficile da formulare, tra sé, a trent’anni. Soprattutto se si è presuntuosi come io ero all’epoca. Ne venni fuori prendendo l’impegno con me stesso di scandagliare l’identità italiana: è quello che ho fatto con i miei libri. Nei saggi veri e propri ho cercato il filo rosso che lega e determina la nostra identità nei secoli; nei libri di ritrattistica che tu citi, mi sono divertito a coglierla in qualche protagonista della nostra storia. Ma, se poi devo dirla tutta, il fatto è che ho lambito il romanzo senza avere il coraggio per prenderlo di petto. I libri sui De Rege e su Tiberio Murgia (il Ferribbotte dei Soliti ignoti) sono libri di un romanziere timido. O codardo. Del resto, è un mio difetto non riuscire mai a scrivere prescindendo totalmente dalla realtà dei fatti. Mi piace, semmai ricamarci intorno. Credo che anche la tua scrittura vada in questa direzione: io parto dalla realtà, tu dal romanzo. Ma il faro è sempre la verità delle cose.

Ritratto al vetriolo di Ionesco, cui hai dedicato, ricordiamolo, un bel libro pubblicato da Gaffi, Ionesco, Eugène – conosciuto a Rimini, nel 1988, e confessi che ne avresti fatto a meno. Racconti la sua deformità fisica, la sua grassezza mal portata, “un uomo grasso dimagrito male”, come specchio del suo carattere, della involontaria clownerie: la “convinta adesione al nazismo rumeno, il tentativo di iscriversi, dopo la guerra, al partito comunista del suo paese per ottenerne un incarico diplomatico a Parigi e ricevutone un rifiuto, la scelta di fuggire definitivamente in Francia. Dove si fece acceso anticomunista paladino delle libertà e del liberismo”, la sua conversione cattolica degli ultimi anni, la velleitaria attività di pittore (lo incontri nuovamente a un suo vernissage in Svizzera). Sulla Cantatrice calva scrivi: senza mezzi termini, aspetta che controllo bene, ecco, “divertissement che ha perso qualunque contatto con l’emotività del pubblico delle epoche successive”, “Può darsi che io sia prevenuto, – aggiungi – ma può anche darsi che dipenda dalla funzione specifica del teatro: ritrovare il passato e il futuro nel presente”.

Ho studiato molto l’opera di Ionesco: gli ho dedicato un libro come hai ricordato, che mi è costato molto impegno. Detesto la sua inautenticità.

Ma anche Dürrenmatt, stavolta ritratto in positivo, l’autoironia sul suo essere considerato negli ambienti del teatro (superstiziosi per definizione, scrivi) un menagramo”,

Dürrenmatt è stato considerato uno di costoro e fra i più potenti. Il che sarebbe stato grave, forse, per il suo destino, il suo umore e il suo successo se egli non fosse stato il primo a prendere sul serio (apparentemente) quella sua nomea. La sua autodenuncia, sincera, lì a Formia, dimostra con quale eleganza sapesse trarsi d’impaccio in situazioni del genere: una signorilità che lambisce la genialità.

Lo intervisti in una sala triste e vuota a Formia, durante una lunga attesa – e riesci a rendere narrativamente l’idea dell’attesa, – ingannata dalle cibarie del rinfresco e dalle chiacchiere fatue sulle donne.  Alla fine un successo per lo spettacolo e per il tuo ritratto-reportage, che i tuoi titolisti del giornale seppero rendere al meglio anche se adesso non ricordo come.

“Parlammo di teatro, – scrivi – di Max Frisch e di Beckett; di narrativa di genere e di Simenon. Ho dimenticato la sostanza dell’intervista, ma ricordo la sua gentilezza nel rispondermi: doveva essere un copione prestabilito, di quelli che i personaggi celebri maneggiano a occhi chiusi,… Stava leggermente inclinato su un fianco, come se la testa gli pesasse: pareva sul punto di assopirsi dietro le sue spesse lenti da miope, oppure vittima di una noia millenaria, invece era vigile e, se sollecitato, le sue espressioni tradivano soddisfazione, come chi si senta in debito con il mondo”.

Andò così. Ma al di là di quell’episodio (che reputo esemplare) credo che Dürrenmatt sia stato un grande. Forse non del tutto capito, ancora.

Beckett. Veniamo a Beckett. Autore amato anzi idolatrato, studiato per tutta una vita (l’ho capito fino in fondo solo da poco, scrivi), gli mandavi le lettere senza ricevere risposta, qualcuno ti aveva dato l’indirizzo. Gli chiedevi se condividesse l’uso degli attori comici per i suoi personaggi allegorici. Beckett che muore prima della Caduta del Muro.

Oggi non c’è nessun Beckett in giro. Non potrebbe essere altrimenti perché si tratta di un autore unico: uno spartiacque. Ma esistono molti autori che ne hanno colto al meglio l’insegnamento. Il napoletano Manlio Santanelli, fra gli altri, ha saputo coniugare la vocazione all’ironia tipica del teatro napoletano con un’analisi impietosa della malattia del mondo alla fine del millennio. Ritengo Beckett un autore non drammatico, lontanissimo dall’immagine di scrittore della disperazione e della solitudine che è stata coniata negli anni Sessanta del secolo scorso quando nessuno riusciva a capirlo. Beckett ha raccontato la vita per quel che è (o, meglio, per quel che è diventata dopo lo strappo dell’Olocausto). La vita è aspettare: solo predisponendosi all’attesa qualcosa succede, anche se quel che succede non è quel che ci aspettiamo. Shakespeare diceva: «La volontà e il destino hanno vie differenti e sempre i nostri calcoli sono buttati all’aria: i pensieri son nostri, non già i loro esiti». Vladimiro e Estragone aspettano Godot: Godot non arriva, ma arrivano Pozzo e Lucky con i quali si divertono e scoprono qualche segreto della vita. La vita è quello che ti succede mentre stai aspettando Godot. Ma se non lo aspetti, non succederà nulla. Tutto il teatro di Beckett è un’allegoria di ciò che siamo: senza pessimismo né ottimismo. E con molti richiami alla comicità. È una cifra difficile da ritrovare in altri autori successivi. Thomas Bernhard, per esempio, è certamente un autore beckettiano, ma gli manca la dimensione comica, gli manca la leggerezza di Beckett. Così pure il norvegese Jan Fosse: un grande autore, ma privo di ironia. E a teatro l’ironia è tutto.

Gassman – gentile ma poi una volta ti liquida bruscamente, “Ho un appuntamento con mio figlio! – e tu confessi candidamente che in quel momento avresti voluto essere suo figlio! Anche questo della paternità è un tema che ritorna. La sua depressione che ti fa pensare a quella mortale, terminale di tuo padre (giornalista e partigiano) – Monicelli che lo ammirava e lo usava in modo insolito ma vincente (I soliti ignoti, ma anche Brancaleone) – aveva capito anche il suo straordinario talento comico. “Ma era anche un trombone” – ti confessa…

Vittorio Gassman è stato il più grande attore italiano del Secondo Novecento. Credo che su questo non ci possano più essere dubbi.

Ci salutiamo, decidiamo di finire l’intervista via mail…

Gianni Agus invece ti parla della rappresentazione di Strehler de L’opera da tre soldi di Brecht… con Modugno-Mister Volare che il pubblico, dici, non poteva scambiare per Mackie Messer, lo stesso dicasi per Milva cantante di Sanremo… quindi l’uso dei comici e personaggi della tv per Brecht: la via di Strehler allo straniamento brechtiano… in fondo quello che scrivevi a Beckett per i suoi personaggi, o no?

È esattamente così: per questa strada credo si possa arrivare a una strana corrispondenza tra Beckett e Brecht, ossia due autori che sono stati considerati antitetici per tanti e tanti anni. Ma il problema è che l’interpretazione di Beckett, per decenni, ha camminato su una strada sbagliata. Beckett è ancora tutto da reinterpretare.

E poi Petrolini, già descritto/raccontato altrove, parli di teatro dell’assurdo mezzo secolo prima di Ionesco e Tardieu, – Ma anche della sua vanità senile, del culto autocelebrativo di se stesso negli ultimi anni…

Petrolini è la quintessenza del grande attore. Geniale e inconsapevole. Ho amato i fratelli Maggio (Pupella, Beniamino e Rosalia) anche per questo: perché non sapevano quant’erano grandi né, soprattutto, perché. Ma ogni sera andavano in scena come se fossero degli impiegati dell’illusione.

Il grande poeta de La terra desolata, Eliot, lo incontri idealmente a Rimini per un Assassinio nella cattedrale, Branciaroli bravo ma testo noioso, confessi, data 1990, l’anno della mucillagine sulle spiagge… piscine prese d’assalto negli hotel dagli stranieri – pipistrelli mattutini, impertinenti, bevono acqua e cloro delle piscine, rimorchio di una cameriera… la serata finisce a letto.

No no! Nel libro credevo di averlo spiegato bene: andai in bianco. Altro che!

Ahah… Poi il teatro nella pittura, visita a Louvre – Nella galleria degli italiani i soliti giapponesi o coreani davanti alla Gioconda che fanno selfie e riprese coi loro attrezzi supertecnologici, – l’enorme meraviglioso dipinto di Veronese sull’altra parete, che nessuno si fila, tu che arpioni quella coppia di danesi, sperduti al centro della sala. “Chiacchierano volentieri e non si spiegano perché io me ne stia così con le spalle alla divina signora senza nemmeno fare foto. Finché chiarisco loro che il quadro Le nozze di Cana di Paolo Veronese, qui davanti a me, in una singola inquadratura non c’entrerebbe mai: troppo grande. Troppo maestoso. Troppo teatro: occorrerebbe andare giù lontano per fotografare questo trionfo di forme ed esteriorità largo quasi dieci metri e alto quasi sette”.

Da anni cerco di studiare il rapporto tra arte e teatro: mi sono reso conto che nei musei (mi ha sempre appassionato guardare i quadri, e soprattutto tornare a guardarli quasi ossessivamente, specie alcune opere centrali del primo Quattrocento e del secondo Cinquecento) mi comporto per quel che sono, ossia uno spettatore teatrale. Ho sempre cercato la regìa in certe tele, e sono arrivato alla conclusione che certi pittori si sono comportati da registi prima ancora che la regìa fosse strutturata come arte autonoma (nel primo Novecento, dunque). Gestione dello spazio, rapporti tra gli attori, relazione fra trama (il tema) e forma di rappresentazione… in questo senso l’arte ha fatto teatro. Spesso anche più e meglio del teatro propriamente detto. Come è il caso del primo Quattrocento (Masaccio, Paolo Uccello, Piero della Francesca) quando ancora il teatro non era rinato. Ecco, ultimamente mi occupo di queste suggestioni: il mio prossimo libro inseguirà questa ipotesi di studio.

Cerimonia di intitolazione di un grande complesso didattico alla Magliana alla memoria di Sandro Onofri – tu sei lì con la moglie e la figlia dello scrittore. – Incontro con i suoi ragazzi – il murales della sua faccia sui muri esterni della scuola. Uno spettacolo celebrativo messo su dai ragazzi – ispirato a Registro di classe – commovente, due sedie su un palcoscenico improvvisato, solo due sedie – due ragazzine sedute, due in piedi che le trascinano, o fingono di farlo. Fino all’epilogo, ironico “Papà, non stiamo parlando un po’ troppo?”. Se dovessi telegraficamente definire lo scrittore Sandro Onofri, che diresti?

Sandro era uno che non parlava mai troppo. E raramente a sproposito (tranne quando parlava di calcio…).

Chiudiamo con il Pci, che ne dici? Partendo dall’intervista di Pratolini, lui felice, soddisfatto, tu vesti i panni del PCI che si scusa con lo scrittore… il partito lo aveva interdetto dalla sua cerchia stretta di fedelissimi per un suo certo eclettismo narrativo.

Avvenne ad Agrigento, alla fine del 1988, quando gli fu assegnato il Premio Pirandello: il mio giornale – il giornale del fu PCI – mi incaricò di intervistarlo senza darmi troppe spiegazioni.

E il tuo rapporto col partito? – in una battuta conclusiva – Dici che ti hanno sempre fatto scrivere quello che volevi, ma che su qualche argomento in fondo in fondo ti autocensuravi. Quanto ha influito sulla tua attività di scrittore sulla tua visione del mondo, il PCI? Che cosa ha rappresentato per te il partito?

Il Pci non so più bene neanche che cosa sia stato: un contenitore di molte cose anche contraddittorie tra di loro. Sicuramente, io ho creduto – come moltissimi altri della mia generazione e delle due precedenti – che il Pci fosse un coagulo benigno di onestà e progresso. Non so se sia stato davvero così: ho smesso di chiedermelo.


Nella foto Andrea Carraro e Nicola Fano con Filippo La Porta

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Andrea Carraro

Andrea Carraro, scrittore, nasce a Roma. Se avesse ricevuto un euro ogni volta che sui media hanno usato il termine “il branco” per parlare di uno stupro di gruppo, citando il titolo del suo romanzo più noto, oggi sarebbe ricco. Invece è “solo” uno scrittore tra i più bravi. Romanziere, autore di racconti e di poesie, nasce a Roma nel 1959. Ha pubblicato i romanzi: A denti stretti (Gremese, 1990), Il branco (Theoria, 1994), diventato un film di Marco Risi, L’erba cattiva (Giunti, 1996), La ragione del più forte (Feltrinelli, 1999), Non c’è più tempo (Rizzoli, 2002) (Premio Mondello), Il sorcio (Gaffi, 2007), Come fratelli (Melville, 2013), Sacrificio (Castelvecchi, 2017) e le poesie narrative Questioni private (Marco Saya, 2013). Ha pubblicato anche due raccolte di racconti, confluite nel volume Tutti i racconti (Melville, 2017). I suoi giudizi critici, sensibili ma affilati quando serve, lo rendono un lettore del cui parere fidarsi con tranquillità.

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