Dopo aver pubblicato racconti sulle più prestigiose riviste americane, Raven Leilani arriva al suo esordio narrativo con un romanzo che parla di solitudini urbane, di poliamore, e di razzismo. Il titolo originario del libro è Luster, che è una marca di olio di jojoba per togliere il crespo ai capelli.
Edith, detta Edie, è orfana di entrambi i genitori, la madre era una ex tossica convertita alla Chiesa Cristiana Avventista del Settimo giorno, il padre un veterano originario di Trinidad, e lei ha imparato a dissimulare il suo profondo senso di straniamento emotivo dietro un certo cinismo.
La solitudine di un minuscolo bilocale a New York City, una coinquilina che quasi non conosce, e le invasioni estive di topi e blatte, molto talento per la pittura che però lascia perdere quando dipingere diventa faticoso. Un lavoro abbastanza soddisfacente come redattrice in una casa editrice di libri per bambini, dalla quale viene licenziata per condotta sessuale inappropriata: insomma ha fatto sesso con quasi tutti gli uomini disponibili e qualcuno ha fatto la spia. E gli Americani non sopportano i confini non rispettati.
Il sesso è il suo modo di ottenere attenzione, lo ha capito da quando aveva 16 anni, ed era ignorata dai ragazzi con i quali lavorava. È una situazione strana, perché lei è stata assunta grazie alla legge che tutela le minoranze, ed è sempre stata trattata come una che bisognava sopportare più che incoraggiare.
Il suo mondo cambia quando conosce Eric, un affascinate archivista di 40 anni, che ha bisogno di fare errori per riavere la gioventù, e che ama il sesso in chat e ha un matrimonio aperto. Tra i due si instaura una relazione non classificabile, connotata da violenza consensuale più che dal sesso soddisfacente, e quando Edie conosce Rebecca, la moglie di Eric, che aveva dato il permesso al marito di coltivare una o più relazioni, ma sempre entro i confini imposti da lei (ad esempio gli incontri extra coniugali solo nel fine settimana, quando lei lo chiama Eric deve correre) e le confessa di aver perso il lavoro e l’appartamento, perché non poteva permettersi di pagarlo, Rebecca l’accoglie in casa, all’insaputa di Eric, che se la ritrova davanti in una strana forma di coabitazione moglie/amante.
Gli equilibri della relazione cambiano nel senso che Eric e Edie si vedono in stanze d’albergo ed Edie comincia a fotografare la casa e i suoi abitanti, li spia anche quando fanno sesso, e riproduce le immagini su tela della realtà che ha osservato.
Il rapporto tra Edie, Rebecca, ed Eric si arricchisce con l’entrata in scena della loro figlia adottiva adolescente, Akila, che soffre di sindrome abbandonica ed è l’unica bambina afroamericana nel ricco sobborgo bianco. Nel modo misterioso che appartiene alla comunicazione tra persone che sono escluse, tra Edie e Akila si instaura un rapporto quasi affettuoso, dove Akila, pur essendo consapevole delle possibilità esplosive innescate dalla presenza di Edie in casa, ha trovato qualcuno che le compra i prodotti giusti per i capelli e vede il razzismo evidente nel linguaggio che il ragazzo che le dà ripetizioni di matematica usa con lei.
Il razzismo in America è ostentato o negato, eppure esiste e rende le vite di quelli che lo subiscono molto complicate. Il razzismo è una cosa concreta, tangibile, quando la polizia ti chiede se abiti in una casa di bianchi, e ti sbatte per terra, non credendo a quello che dici. Il razzismo è il fatto che aspetti che qualcuno ti serva e il tuo turno viene dopo quello di altri. Il razzismo è quando agiti le braccia e nessuno ti vede. Vedono solo la tua pelle, e la disponibilità ad essere quella che, nell’immaginario buonista dell’ America, dev’essere una ragazza afroamericana, una che deve lavorare il triplo per essere pagata la metà e dire grazie.
La solitudine di Edie fa paura, una paura sottile, strisciante, perché a parte se stessa e il suo talento, lei davvero non ha prospettive, né nessuno che si occupi di lei, per forza deve vivere con quello che trova e parole come giusto o ingiusto nel suo mondo non hanno senso.
Quello che so di lei lo so anche di me: per evitare di sentirsi addosso quelle ore grigie e sconfortanti di notte, si può piangere con la bocca contro il cuscino, desiderando che qualcuno ti dica “ci sono io qui, puoi anche smettere di essere forte, per un minuto”.
Saliamo per la terza volta sull’ottovolante più alto del parco e lui strilla come fosse la prima. Davanti a questa gioia allo stato puro se potessi mi aprirei la pelle per mostrargli cos’ho dentro, cosa ribolle nelle mie viscere, nel mio stomaco. Il vento gli pettina i capelli con i suoi grossi denti uncinati. Dentro i suoi occhi mi vedo riflessa, frantumata come in uno specchio rotto. “Vorrei che ogni giorno fosse così”dice quando arriviamo alla parte più terrificante del giro, quando ti tengono sospesa a mezz’aria prima di scaraventarti giù. Sotto di noi si accendono le luci del parco. Tutto quello che voglio è che lui possa avere ciò che vuole. Voglio essere una donna senza complicazioni e senza esigenze. Voglio che non ci siano attriti fra l’idea che si è fatto di me e la persona che sono davvero. Voglio che il sesso sia intimo e tiepido, che lui abbia problemi di erezione e che io sia un po’ troppo esplicita. Voglio litigare con lui davanti a tutti.
Poi mi torna in mente sua moglie, l’ottovolante rallenta e cominciamo a scendere.